Algeria: Il mistero del deserto dei Tassili l’astronauta

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9984-funeral2Cosa ci fa un uomo raffigurato in questo modo in posti prima della nascita di Cristo, (Deserto dei Tassili)? A prima vista, sembrerebbe ineluttabilmente presagire alla comparsa di extraterrestri fin dagli albori della civiltà umana … la notizia che giunge sembra avere dell’incredibile…

Deserto dei Tassili: il mistero delle figure impossibili

Nella zona desertica del Tassili N’Ajjer, situata a sud est dell’Algeria, in un infuocato altipiano che si estende per circa 500 chilometri, si trova una delle zone più interessanti dal punto di vista dell’arte neolitica e primitiva. Una zona tanto importante da essere diventata Parco Nazionale e Patrimonio dell’Umanità. Nel non lontano 1933 infatti un ricercatore archeologo francese, Henri Lhote, fece una scoperta sensazionale: sulle tante pareti rocciose della zona, martellate incessantemente dal vento e dal sole, i nostri antenati, che vissero  in quel territorio in un lungo periodo che va dal 10.000 al 500 a.C, fecero migliaia di incisioni con vari soggetti, sia umani che animali, che sono giunte praticamente intatte fino a noi e che rappresentano una preziosissima testimonianza su quella misteriosa civiltà.

Le rappresentazioni in esame possono essere classificate in cinque periodi che vanno appunto dal primo periodo, cosiddetto “Bubalico” che va dal 10.000 al 6.000 a.C., all’ultimo periodo cosiddetto “Camelino” che ebbe il suo inizio dopo il 400 a.C. Le raffigurazioni che lasciarono più interdetto e stupefatto il ricercatore appartengono al secondo periodo chiamato “Periodo delle teste vuote” in quanto vi si vedono raffigurate stranissime figure di esseri umani con appunto teste rotonde apparentemente vuote e rivestiti spesso con strani abiti tanto da far dire a qualche ricercatore meno allineato che saremmo in presenza di raffigurazioni di antichi astronauti con tanto di caschi e di tute.

Tra tutte una in particolare, di cui si può apprezzare un fedele schizzo all’inizio dell’articolo, attirò l’attenzione di Lhote, una raffigurazione alta ben sei metri e che sembra raffigurare uno stranissimo individuo umanoide ricoperto da una strana tuta e con la testa racchiusa in quello che sembra, non ci vuole molta fantasia, una sorta di scafandro. Questa non è l’unica figura con queste caratteristiche perché il motivo si ripete in raffigurazioni analoghe, qualcuna delle quali sembra addirittura fluttuare in aria, anche se, quest’ultima caratteristica potrebbe essere frutto proprio del petroglifo in grado di dare questo strano effetto ottico.

Il ricercatore francese chiamò questa figura decisamente surreale e “impossibile” “il grande dio marziano“. Poi lo stesso, vedendo che in apparenza quella era l’immagine di un uomo nudo con tanto di casco-scafandro, concluse che in verità doveva trattarsi, in modo più plausibile, della raffigurazione di un uomo con un copricapo di origine rituale. Se guardiamo il disegno, assolutamente fedele, messo in capo all’articolo, non possiamo non rimanere stupiti da quelle che sembrano essere similitudini per nulla campate in aria. Il cosiddetto casco aderisce al resto del corpo grazie a quelle che sembrano delle giunture a incastro tipiche dei caschi degli odierni astronauti, mentre il resto del corpo, lungi dall’essere la raffigurazione assolutamente imperfetta di un uomo nudo, ci pare essere invece la rappresentazione di una qualche forma di tuta per giunta non perfettamente aderente al corpo, anche questa un’altra particolarità che sembra rimandare di nuovo alle tute dei nostri odierni astronauti.

Se riflettiamo un attimo, potremmo a questo punto chiederci come avrebbe potuto un uomo primitivo rappresentare un essere con tanto di casco e tuta e la risposta non può che essere del tutto simile a quanto troviamo raffigurato in quelle pietre. Un disegno che sembra fatto da un bambino delle elementari ma che riesce a cogliere singoli particolari di cui ovviamente l’artefice non era in grado di capire il significato e che, in qualche modo, ha provato a descrivere pedestremente. Ovviamente se così fosse saremmo di fronte ad un immagine impossibile perché sette mila anni fa non esisteva ancora l’Ente Nazionale Spaziale americano né quello russo. Ma allora chi è il gigantesco individuo rappresentato così vividamente su quella roccia? Anche le dimensioni fanno propendere per un qualcosa di assolutamente fuori dal comune almeno agli occhi dei poveri uomini che abitavano quelle zone in tempi remoti, un qualcuno che avrebbe potuto essere assimilabile ad un dio.

Non sono mancate ovviamente anche le tesi contrarie all’ipotesi di possibili visitatori da mondi alieni. Due in particolare ci sembrano comunque plausibili. In primo luogo quella di alcuni ricercatori antropologi che hanno immortalato nella zona presso il Lago Ciad, l’usanza della popolazione attuale di seppellire i corpi dei defunti ricoperti di bende e con la testa coperta da una giara. E’ evidente anche in questo caso, vedendo le foto scattate dai ricercatori, l’incredibile somiglianza con le immagini raffigurate sulle rocce del Tassili.

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Potrebbe bastare, in questo come in altri casi, un piccolo sforzo di documentazione per risolvere la questione in modo corretto e fondato. Nell’interessantissima raccolta fotografica intitolata “1900. L’Afrique découvre l’Europe”, Eric Baschet riporta la sequenza d’un funerale, fotografata nella regione del lago Ciad, negli anni intorno al 1920 (p. 64-65). La didascalia è la seguente:

“Un uomo è morto. Il cadavere è avvolto con fasce di cotone, legato con strisce di cuoio bovino, rivestito d’una tunica. Poi viene fatto scivolare in una stretta tomba e viene poi sepolto in posizione seduta, con la testa coperta da una grande giara di terracotta”.

Osserviamo le prime foto della sequenza e non possiamo fare a meno di constatare che il trattamento rituale, riservato a quel morto dagli eredi degli antichi abitanti di Jabbaren, emigrati alcune migliaia di chilometri più a sud, addobba il morto esattamente come l’immagine che ottomila anni fa era stata dipinta sulle montagne sahariane, sino a dargli l’apparenza di uno “scafandro spaziale”, con il casco rotondo sulla testa. Si tratta della preparazione non per un viaggio spaziale, ma per un viaggio in un mondo molto più remoto, quell’aldilà che tanto ha affascinato e tuttora affascina l’ansia di mistero dell’uomo antico e moderno, da ben prima dell’antico Egitto sino ai giorni nostri. Le protezioni occorrenti a quell’antenato devono perciò essere molto più robuste e sostanziali di quelle d’un uomo che si appresti a volare nello spazio-

Nella regione dei monti Tassili, ad ovest dell’antico mare sahariano d’acqua dolce, un tempo popolato da ippopotami e coccodrilli, gli Antichi (Egizi e Greci) situavano l’estremo occidente, il giardino delle Esperidi e il mondo dell’Oltretomba, dal quale un comune mortale non poteva fare ritorno. Solo alcuni eroi, come Erakles, Giasone e gli Argonauti, potevano riuscire nell’impresa.

Perché mai dovremmo stupirci che su quelle montagne, insieme alle scene di caccia, di vita quotidiana, alle danze e alle scene di riproduzione rituale, siano raffigurate scene di sepoltura rituale, come essa era praticata da popolazioni che poi migrarono verso sud, verso il cuore dell’Africa umida?

Le loro orme, secondo Henri Lhote, furono seguite anche da una legione romana, quella del legato Cornelio Balbo, che nel 19 a.C. si spinse nel profondo Sud del Sahara, poi riuscì a ritornare a Roma ed ottenne il trionfo. Secondo Plinio, la III Legio Augusta, al comando di Cornelio Balbo, scese verso sud, passando per Alasi e Balsa, sino a toccare diversi fiumi, tra i quali il Dasibari. Secondo Lhote, il legato romano avrebbe potuto percorrere l’antica “strada dei carri”, l’antica carovaniera che correva lungo la sponda orientale del Bahr Attla, il “Mare di Atlantide”, citato anche in un libro della Bibbia. Lungo quella strada sono frequenti le raffigurazioni dei carri dei Garamanti. Alasi sarebbe la cittadina sahariana che oggi porta il nome d’Ilezy e Balsa potrebbe essere Abalessa, la mitica roccaforte dei Tuareg ai piedi dell’Ahaggar. Dasibari potrebbe essere uno dei nomi con cui le popolazioni locali chiamano il gran fiume Niger: Isa-Bari, in lingua Sonrhai, significa proprio ‘grande fiume’ e designa ancor oggi il Niger, e ‘Da’ è il nome che quelle popolazioni danno ai leggendari antichi ‘Signori dell’acqua’, per cui il Niger poteva in antico essere chiamato proprio ‘Da-Isa-Bari’, con un termine molto simile a quello tramandato da Plinio.

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Tratto da: http://www.accademiajeshuaeuropa.it/

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