Nessuna tesi da sostenere. Solo una sensazione (brutta comunque). L’impressione che qualcosa non torni. La notizia, si fa per dire, sarebbe che l’Italia si avvia a far concorrenza alla Francia nell’esportazione di vino…in Camerun (in Camerun, avete letto bene).
Nel 2022 avrebbe quasi raddoppiato (un aumento del 75,58% secondo il Trade Data Monitor), arrivando a 1,369 milioni di euro spesi dal Camerun per acquistare vini italici (quanto prosecco?).
In realtà la quota di mercato per i vini italiani rimane minima, un 4% (ma nel 2021 si fermava al 2,48%). Non ne capisco molto, ma mi sembra che vi sia uno scollamento tra aumento delle vendite e aumento dei ricavi in euro. Forse l’anno scorso il vino è stato venduto a costi inferiori?
Ovviamente ancora ce ne vuole per raggiungerela Francia al 71% delle quote di mercato. Nel 2022 l’Esagono ha esportato vini in Camerun per 24 milioni di euro, seguita dalla Spagna (insieme raggiungono l’84,5%).
Contenti loro, mi ero detto (gli abitanti del Camerun). In fondo anche in Irlanda tra i giovani si va diffondendo, mi dicono, il prosecco a scapito della tradizionale birra. Effetti perversi della globalizzazione?
Tuttavia (pur sapendo che criticare el vin in Veneto equivale a bestemmiare di brutto) non ho potuto non pensare alla strana coincidenza – o forse contraddizione – per cui ultimamente sui Colli veneti che frequento (a piedi) incontro sempre più spesso, oltre a qualche indiano e arabo, africani provenienti dai paesi subsahariani. Intenti non soltanto a vendemmiare, ma anche alle altre attività attinenti ai vigneti, come per esempio a bruscare le visee. Quindi in vari periodi dell’anno. Magari “stagionali”, ma in più e diverse stagioni.
E mi chiedo: cosa c’è che mi disturba al pensiero che questi vini prodotti in Italia grazie (oltre all’uso e abuso di inquinanti “fitofarmaci”) al lavoro degli immigrati (in genere inquadrati in “cooperative” più o meno di facciata, non saprei con quali garanzie e tutele lavorative) vengano venduti ad altri africani, presumo di condizione sociale più benestante?
Altro pensiero collaterale. Negli anni settanta vari amici e parenti disinteressatamente impegnati in Africa (come medici, volontari etc.) mi raccontavano che, mentre in Europa si andava diffondendo l’uso delle scritte informative, disincentivanti nelle intenzioni, sui pacchetti di sigarette (mettendo in guardia anche con le immagini inquietanti di qualche polmone “andato”), alcune città africane si andavano ricoprendo di manifesti pubblicitari dove l’atto di fumare veniva presentato come gesto moderno, addirittura di presunta emancipazione dal sottosviluppo etc… Anche per le donne.
In anni successivi la diffusione del tabagismo avrebbe causato danni rilevanti. Planando e diffondendosi su una popolazione che in precedenza non conosceva più di tanto il cancro al polmone. Sempre stando alle mie fonti, tale patologia in Africa sarebbe stata relativamente poco diffusa, quasi una rarità. Poi i casi sarebbero aumentati in maniera esponenziale.
Coincidenza. Da qualche tempo, bene o male, anche sul vino incombe, se non la decisione definitiva, almeno il proposito di “mettere in guardia”, di avvisare che potrebbe fa male. Quindi, . per la gioia di Vinitaly, l’Africa potrebbe diventare nuovamente un mercato in cui espandersi senza remore.
Non sappiamo con quali conseguenze sulla salute di popolazioni in genere (credo) più abituate ad altre bevande fermentate. Non so se l’analogia regga, ma ci ricordiamo di quali effetti devastanti ebbe l’alcol sulle popolazione native del Continente “americano”?
O magari della pessima birra a basso costo (e devastante per i reni) rifilata negli “ostelli” ai Neri in Sudafrica? In genere immigrati dai bantustan per lavorare nelle miniere o nelle proprietà dei boeri.
Solo una sensazione, dicevo. Ma comunque “ragioniamoci sopra”…
Gianni Sartori
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