Bruxelles, il vertice dei ministri degli Esteri della Nato (1 e 2 dicembre 2014) ha segnato, di fatto, la fine della lunghissima missione Isaf in Afghanistan e l’inizio di Resolute Support, un’altra missione militare internazionale, questa volta non di combattimento ma di addestramento e sostegno delle truppe dell’esercito nazionale afgano.
Le forze Nato vengono ridotte a 12mila uomini (9800 dei quali sono statunitensi, l’Italia partecipa con un contingente di 800 militari), basate a Kabul e in altri quattro presidi periferici: Mazar-e Sharif, Herat (dove saranno dislocati ancora gli italiani), Kandahar e Jalalabad. La scadenza della missione Isaf può essere letta come la fine della più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti e dai suoi alleati europei: 13 anni di conflitto a bassa intensità contro i guerriglieri talebani, dal 2001 ad oggi. I caduti, da parte della Coalizione, sono quasi 3400, quelli delle truppe regolari afgane circa 10mila, non esistono stime attendibili sulle perdite subite da Al Qaeda e dai talebani, i civili morti in guerra sono dai 18mila ai 20mila, a seconda delle stime.
Ne è valsa la pena? La guerra è iniziata come risposta diretta all’attacco di Al Qaeda al cuore dell’America: gli attentati alle Torri Gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001, un’operazione di megaterrorismo organizzata e pianificata dalle valli afgane, in cui operavano Bin Laden e la struttura centrale di Al Qaeda. Il conflitto in Afghanistan, una volta scacciati dal potere i talebani e colpita duramente Al Qaeda, si è trasformato quasi da subito in una missione di “nation building”: aiutare il nuovo governo afgano a ristabilire il controllo sul territorio, permettere una transizione pacifica verso la democrazia e impedire che i talebani o altri gruppi fondamentalisti islamici potessero riconquistare il potere. E qui iniziano le difficoltà, perché se è facile misurare il successo di una missione di “regime change” (l’obiettivo era scacciare i talebani dal potere ed è stato raggiunto), più difficile è misurare il successo di una missione di “nation building”.
Considerando che l’Afghanistan è un paese ancora altamente instabile, la missione Isaf viene solitamente letta come un fallimento. L’esperienza di questa ultima settimana ha dimostrato che la frequenza degli attentati talebani, non solo non diminuisce, ma è in crescita. Gli jihadisti hanno iniziato a colpire punti nevralgici, nel centro di Kabul e dentro Camp Bastion, una delle principali basi passate dagli americani all’esercito afgano. Si può comunque vedere anche il bicchiere mezzo pieno. E’ infatti vero che il Paese è ancora instabile, ma la transizione democratica verso un nuovo governo è stata completata, con l’elezione del nuovo presidente Ashraf Ghani, quale successore del primo presidente Hamid Karzai. Il processo avrebbe potuto fallire, nel momento in cui lo sfidante di Ghani, Abdullah Abdullah, ha denunciato frodi elettorali. La disputa è durata fino a settembre, ma da due mesi il presidente Ghani è ufficialmente riconosciuto quale capo di Stato e il parlamento è sulla via dell’approvazione di un governo di unità nazionale. “I progressi di questi anni sono notevoli – dice il segretario di Stato Usa John Kerry, in conferenza stampa a Bruxelles – questo pomeriggio (al summit dei ministri degli Esteri, ndr) abbiamo ascoltato sia il presidente Ghani che Abdullah Abdullah, parlare con gli stessi argomenti, mirare allo stesso futuro per il popolo afgano. Questo è il primo trasferimento di potere pacifico, in un sistema democratico, in tutta la storia dell’Afghanistan. Non è un successo da poco. Così come non possiamo sottovalutare il successo della formazione di un governo di unità nazionale”.
Per quanto riguarda la sicurezza, il bicchiere mezzo pieno è il nuovo esercito afgano. Quanto sarà pronto a sostenere la guerriglia talebana, da solo e senza il sostegno di truppe combattenti della Nato? La prima risposta ci viene da una fonte ufficiale della Nato: le nuove forze di sicurezza afgane siano numericamente il doppio rispetto alle forze Isaf nel momento del loro maggior impegno, dunque sono perfettamente in grado di tenere sotto controllo tutte le province. Numericamente. Ma il morale e l’affidabilità? “Il nostro apparato di sicurezza è molto giovane, ma è una forza critica – assicura il presidente Ghani durante il vertice dei ministri Nato – E’ continuamente cresciuta, da una piccola divisione fino diventare una grande forza professionale pienamente operativa. Ho avuto il privilegio di guidare la transizione della sicurezza (dall’Isaf all’esercito nazionale) e conosco bene il livello di preparazione di soldati, sottufficiali e ufficiali, avendo visitato caserme, centri di addestramento e basi militari in tutte le province del Paese. Il fiore della nostra nazione sta combattendo, in uniforme, per costruire una nuova nazione”. Solo retorica di un neo-eletto presidente? La fonte Nato ci spiega che, dopo un decennio di formazione, le forze armate e la polizia locali hanno conquistato la fiducia della popolazione. I civili afgani, insomma, vedono nel soldato e nel poliziotto, delle figure affidabili, pronti a sacrificare la loro vita per proteggere la sicurezza della popolazione. Questa impressione ci viene confermata anche da due giornalisti afgani, presenti a Bruxelles per coprire l’incontro. Entrambi ci dicono che, sia la polizia che l’esercito sono visti come corpi sani della società, pronti al sacrificio per compiere la loro missione.
Il livello di sicurezza, in ogni caso, è ancora molto basso. Una giornalista afgana basata a Bruxelles ci spiega come sia ancora impossibile spostarsi in auto da una città all’altra, perché le strade sono pericolosissime. Un’imboscata o un attentato sono sempre dietro l’angolo. “Gli Stati Uniti, l’Europa, il Giappone, l’Australia e altri Paesi che hanno partecipato alla missione, sono stati salvati da ulteriori massicci atti di terrorismo, grazie a Dio – dice Ghani, nella sua relazione – Ma il nostro popolo, tutto il nostro popolo, civili e militari, in tutti i luoghi pubblici, nelle moschee e nei mercati, nelle strade e nelle scuole, è continuamente esposto a vili attacchi di un terrorismo ormai divenuto routine. Raccogliere i corpi dei bambini assassinati in un campo di gioco, o parlare con il padre di una ragazza fatta esplodere nella sua scuola, vuol dire vivere tutti i giorni la morte dei valori di pace e tolleranza della società musulmana”. Kabul stessa non è affatto sicura. “Alla mattina sappiamo sempre quanti usciranno di casa per andare a lavorare o a studiare, ma non sappiamo mai quanti ne torneranno vivi”, ci spiega un altro giornalista afgano. La fonte ufficiale della Nato ci spiega, comunque, che il numero degli attentati dei talebani non cala, ma gli stessi talebani non riescono a consolidare la presa su alcun territorio. Quanto a una possibilità di ritorno dei talebani al potere, “poteva essere un’ipotesi realistica fino cinque o sei anni fa, ma ora non più – ci spiega la fonte Nato – il loro momento è passato, ora la popolazione è molto cambiata, non vuole più tornare indietro e bruciare tutti i progressi conquistati”.
E se, alla fine della missione Isaf, dovesse scoppiare una nuova guerra civile? “Dipende solo se si consolida un governo di unità nazionale. Se l’unità tiene, il rischio non sussiste – ci spiega un giornalista della Tv afgana – solo se il governo dovesse dividersi in fazioni contrapposte, allora le milizie delle due parti inizierebbero a combattere. In quel caso rischieremmo una nuova guerra civile”. E solo in quel caso, i talebani potrebbero sfruttare la divisione dei loro nemici per passare di nuovo all’offensiva. Non è neppure possibile fare un paragone diretto con la situazione del 1989: quando i sovietici si ritirarono, dopo dieci anni di occupazione, immediatamente dopo scoppiò la guerra civile e cinque anni dopo i talebani presero il potere. Ma questo fu possibile perché, nel 1989, l’Unione Sovietica stessa stava collassando e non era più in grado di fornire alcun tipo di aiuto al governo locale (che allora era comunista e filo-sovietico). La Nato, al contrario, manterrà una sua forte presenza sul territorio, con 12mila uomini. Gli Usa, oltre a partecipare alla missione Resolute Support, manterranno anche una piccola forza combattente, con funzioni anti-terrorismo. Come ci spiega l’ambasciatore statunitense alla Nato, Douglas Lute, poi, tutte le truppe Nato avranno una piena capacità di difesa, potranno colpire, anche preventivamente, ogni minaccia a loro rivolta, anche avvalendosi dell’appoggio aereo. Di fatto, l’intervento cambia faccia, ma non finisce qui.
di Stefano Magni
Tratto da: http://www.lanuovabq.it/
Sostieni la redazione di Notizie Cristiane con una donazione, clicca qui