Adozioni coppie gay: non sono tutti sogni d’oro

Per il sociologo Paul Sullins le ricerche sulle coppie omogenitoriali hanno campioni limitati e contengono errori. «I bambini adottati soffrono di disturbi emotivi e vivono conflitti interiori legati alla loro condizione»

Se per farsi un’idea del punto a cui sono arrivati la ricerca scientifica e il dibattito accademico sulla cosiddetta omogenitorialità qualcuno decidesse di aprire la pagina web della Columbia Law School, che fa parte della prestigiosa Columbia University di New York, potrebbe ben pensare che il dibattito è concluso e deciso. Non c’è nessuno svantaggio a essere figli di una coppia di donne o di uomini anziché avere come genitori un uomo e una donna, si legge nel testo posto all’attenzione del pubblico, poiché questo è ciò che si evince dai 79 studi condotti finora negli Stati Uniti sul benessere dei bambini nelle famiglie omoparentali: solo 4 di essi riferiscono di svantaggi dei primi sui secondi, per cui si può concludere che «l’opinione dominante fra gli studiosi» è che «avere per genitore un gay o una lesbica non causa danni ai figli». Quando dopo le elezioni politiche del 2018 in Italia si ricomincerà a discutere sull’introduzione della possibilità per le coppie dello stesso sesso di adottare bambini e di usufruire della cosiddetta maternità surrogata, quasi certamente i due parlamentari del Pd Monica Cirinnà e Sergio Lo Giudice sventoleranno in aula gli Abstract degli studi in questione. Peccato però che siano profondamente viziati da errori metodologici e fattuali, come ha recentemente dimostrato il reverendo Paul Sullins, docente di sociologia della Catholic University of America di Washington.

Degli studi di Sullins, che è un sacerdote ex episcopaliano (anglicani americani) sposato e padre di tre figli, passato alla Chiesa cattolica nel 2002, si parla estesamente in un testo di Elena Canzi, psicologa e docente all’Università Cattolica di Milano, recentemente edito da Vita e Pensiero: Omogenitorialità, filiazione e dintorni – Un’analisi critica delle ricerche. Testo che si avvale della presentazione di due grossi calibri degli studi di psicologia della famiglia in Italia: Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli. Alla fine il Centro di ateneo Studi e ricerche sulla famiglia della Università Cattolica di Milano diretto da Giovanna Rossi ha invitato a parlare tutti, cioè Paul Sullins, Elena Canzi, Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli, a un seminario internazionale dal titolo “Omogenitorialità e filiazione” che si è tenuto il 28 settembre.

Quali errori che vizierebbero i risultati finali avrebbe scoperto Sullins? Fondamentalmente due. Il primo riguarda la carente rappresentatività e la ridotta dimensione dei campioni di popolazione utilizzati nei 75 studi etichettati come “no harm” (cioè nessun danno dal fatto di essere i bambini di una coppia omosessuale). «Conteggi accurati da parte di revisori sia favorevoli sia critici concordano che solo 5 studi di tutto il gruppo hanno utilizzato un campione casuale. Ciò significa che 70 dei 75 studi che sostengono l’opinione “no harm” non utilizzano un campione rappresentativo a sostegno della loro inferenza. Quanto sono piccoli i campioni di convenienza “su scala ridotta” utilizzati in questi 70 studi? Molto piccoli. La grandezza media è di appena 39 partecipanti in relazioni same-sex. In altre parole, quasi tutti gli studi “no harm” presentati come “ricerca” sono basati su sondaggi di contatti e amici, e amici degli amici, dei ricercatori stessi; oppure si tratta di genitori reclutati in ambiti omofili come “eventi Lgbt, pubblicità su giornali e in librerie, passaparola, gruppi giovanili e reti di relazioni”, ai quali sono stati spiegati gli scopi dello studio e sono stati invitati a mostrare come se la cavavano bene i loro figli. Questa procedura non è credibile. Cercare di valutare quanto vadano bene le cose per bambini accuditi da coppie gay intervistando reti amicali favorevoli alle richieste dei gay è come cercare di valutare il tasso di religiosità di una popolazione intervistando i partecipanti a un corso di studi biblici e i loro amici». I 5 studi che rivelano svantaggi per i figli di coppie omosessuali, invece, sono tutti basati su campioni casuali e quantitativamente rappresentativi.

Il secondo tipo di errore è di ordine fattuale. Sembra incredibile, ma nel caso di 3 studi “no harm” che hanno superato il test del campione affidabile i risultati sono poi viziati dal fatto che al gruppo delle coppie omosessuali sono mescolate coppie eterosessuali erroneamente classificate omosessuali. Questi errori materiali non sono rari e condizionano molto i risultati perché, essendo il numero delle coppie omosessuali raffrontate con quelle eterosessuali molto piccolo per riflettere le effettive proporzioni nella realtà, basta qualche errore di assegnazione nel primo gruppo per far sballare i risultati finali. Nello studio di J.L. Wainright «il 61 per cento dei casi identificati come “genitori dello stesso sesso” consisteva di partner genitori di sesso differente. Nel recente studio di Bos basato su dati del censimento olandese circa il 65 per cento del campione di genitori dello stesso sesso consisteva di genitori eterosessuali assegnati erroneamente».

Abuso sessuale infantile
Questa premessa consente di apprezzare maggiormente i risultati di quegli studi, basati su campioni casuali, attendibili e rappresentativi, che hanno appurato che in realtà i figli in situazioni omogenitoriali hanno più problemi di quelli i cui genitori sono un uomo e una donna che vivono insieme. Uno studio di Sullins del 2015 che ha paragonato 582 figli con genitori dello stesso sesso con 200 mila bambini della popolazione generale afferma che in materia di disturbi emotivi i primi sono svantaggiati rispetto ai secondi. Il 17,4 per cento di loro ha presentato problemi emotivi di natura clinica contro il 7,4 per cento dei primi; il 19,3 pr cento ha presentato disabilità dello sviluppo (disturbo da deficit dell’attenzione, ecc) contro il 10,2 per cento dei secondi; il 17,8 per cento dei primi ha ricevuto un trattamento medico per il suo problema emotivo e il 21 per cento ha ricevuto un trattamento farmacologico, contro il 10,4 per cento e il 6,9 per cento dei secondi. In un altro studio del 2016 di Sullins è emerso che all’età media di 28 anni i figli di coppie omosessuali mostrano maggiore rischio di sviluppare sintomatologia depressiva: l’incidenza dei sintomi depressivi nel gruppo di figli di coppie omosessuali cresce in modo esponenziale, dal 18 per cento nell’adolescenza al 51 per cento in età adulta, mentre l’incidenza nel gruppo di figli di coppie eterosessuali diminuisce nel tempo di 2 punti percentuali con un valore totale in età adulta pari al 20 per cento.

Un dato inquietante che ricorre negli studi che affermano l’esistenza di svantaggi riguarda gli abusi sessuali. Dice Sullins: «Una delle scoperte più impressionanti degli studi che riconoscono lo svantaggio è la ricorrente suggestione che l’abuso sessuale infantile è molto più frequente fra le coppie lesbiche e i loro figli. Alla domanda: “Un genitore o un altro adulto che doveva occuparsi di te ti ha mai toccato con intenti sessuali, costretto a toccarlo o toccarla con intenti sessuali, o costretto ad avere rapporti sessuali?”, Regnerus ha riportato che il 23 per cento dei figli con madri che avevano avuto una relazione lesbica ha risposto “sì”, paragonato al 7 per cento di tutti i bambini. Allo stesso modo, il mio studio ha scoperto che il 38 per cento dei bambini che stavano vivendo con madri lesbiche sposate rispondeva “sì”. Cameron, in un studio precedente, aveva scoperto che il 29 per cento di figli di gentiori omosessuali riferivano contatti sessuali coi genitori. Significativamente, nessun studio “no harm” si è mai occupato di abuso sui minori da parte genitoriale».

Un’altra critica molto acuta che Sullins fa agli studi sull’omogenitorialità è di non tenere conto della varietà di costellazioni genitori-figlio che si danno nel caso di coppie omosessuali. Mentre nelle coppie eterosessuali esistono solo due costellazioni possibili di rapporto (padre-madre-figlio e padre-madre-figlia), nelle coppie omosessuali le possibilità sono quattro, perché esistono due tipi di coppie genitoriali, quella con due uomini e quella con due donne. Sullins ne tiene conto nei suoi studi, e così è stato in grado di rilevare che la condizione più stressante di tutte è quella di figlia con due genitori donna: costei ha 5 volte più probabilità di sperimentare disagi emotivi di un bambino o di una bambina con due genitori di sesso diverso sposati. Il figlio maschio di due uomini ha 4 volte più probabilità, e il figlio maschio di due donne 2,62 probabilità in più; il dato più basso è quello di una figlia di due uomini, che ha solo 1,96 volte più probabilità di sperimentare disagio emotivo.

Un grave onere
Che la vita emotiva dei figli di coppie omosessuali sia mediamente più stressante di quella dei figli degli eterosessuali dovrebbe essere intuitivo: hanno il problema di raccontare o non raccontare la loro realtà familiare ad amici e compagni di scuola, si ritrovano a dover assumere atteggiamenti protettivi nei confronti dei genitori, e vivono conflitti interiori relativi al loro personale orientamento sessuale: i loro genitori omosessuali in maggioranza desiderano vederli crescere eterosessuali, per non essere accusati di averli condizionati, ma loro non hanno modelli di riferimento in casa. Scrive Elena Canzi nel suo libro: «Come afferma Abbie Goldberg, molti genitori omosessuali preferiscono “che i figli adottino un’identificazione eterosessuale una volta divenuti adulti, perché è più facile”. Una seconda motivazione nasce dal desiderio dei genitori di smentire lo stereotipo secondo cui i genitori omosessuali crescono figli omosessuali. (…) Da parte loro i figli, consapevoli della non facile situazione di vita delle persone omosessuali, tenderebbero anch’essi a non esprimere le loro eventuali difficoltà, in modo da essere giudicati normali e proteggere così i propri genitori. (…) Ne viene così che i figli di genitori omosessuali sono cauti nell’ammettere le difficoltà che pure incontrano, non solo all’esterno, ma anche in famiglia: come ha osservato Garner (2004), a volte i figli descrivono (ai genitori) una realtà diversa da quella che stanno vivendo perché vogliono proteggerli. Un grave onere, che può diventare opprimente durante l’adolescenza. I figli di genitori omosessuali nel loro percorso di costruzione dell’identità sessuale e di genere possono così trovarsi in difficoltà, poiché se eterosessuali si trovano a dover gestire una situazione in contrasto con il modello genitoriale, se omosessuali ne deludono le aspettative. D’altra parte, anche nei confronti dell’ambiente sociale, sentono di dover esibire standard comportamentali d’eccellenza per confermare la “normalità” della loro famiglia e ciò tende a provocare in loro un senso di inadeguatezza».

Infine, il tasso di omosessualità fra i figli di omosessuali è più alto della media generale oppure no? È ancora presto per una conclusione definitiva, ma alcuni studi dello stesso gruppo “no harm” fanno pensare di sì. In uno studio di Bos e Goldberg su 77 nuclei familiari di madri lesbiche solo il 64,9 per cento dei ragazzi si dichiarava esclusivamente eterosessuale. Nella ricerca di Kuvalanka e collaboratori che ha coinvolto 30 giovani adulti tra i 18 e i 25 anni che hanno vissuto con almeno una madre lesbica durante l’adolescenza, al momento della raccolta dati 4, cioè il 13,3 per cento, si identificavano come transgender. Walter Schumm (2010) ha estratto le informazioni circa l’orientamento sessuale di 262 figli di genitori omosessuali da dieci testi che raccolgono varie testimonianze sul tema ed è emerso che la percentuale dei ragazzi con orientamento omosessuale presenti in questi testi varia dal 16 al 57 per cento, diversamente dal gruppo di confronto in cui la percentuale si assesta intorno al 10 per cento. Così è, anche se non vi pare.

Foto Ansa

Rodolfo Casadei | Tempi.it

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