C’è un Paese dove non nascono più bambini, in un docufilm che la Plasmon ha realizzato e che si titola Adamo dal nome dell’ultimo nato in Italia, il quale a sua volta evoca quello del primo uomo sulla Terra.
È l’anno 2050 e un neonato piange desolatamente fra le culle vuote del reparto di neonatologia. E poi, cresciuto, non ha compagni per giocare in un’aula d’asilo in cui domina un silenzio assordante. Non ha fratelli né cugini e neanche amici. Papà e mamma raccontano delle difficoltà di farlo socializzare nel deserto d’infanzia che c’è, mentre la maestra rimpiange il tempo in cui la scuola era riempita di giochi, voci e di domande insistenti. Un’ostetrica, in una sala parto asetticamente incellofanata, rievoca invece malinconicamente quando ancora poteva aiutare a far nascere.
Sembrerebbe mera provocazione, ma non è così, perché alla base del docufilm c’è una ricerca condotta su un campione rappresentativo della popolazione nazionale dalla Community Research & Analysis sotto la direzione di Daniele Marini (Università di Padova). Essa, quindi, non solo individua i motivi che scoraggiano o impediscono al desiderio di divenire genitori di realizzarsi, ma mostra anche che questo persiste ancora nonostante le difficoltà e le incertezze legate alla sfera economica e lavorativa, con il timore di perdere il lavoro al primo posto, nonché alla carenza di servizi (nidi, asili e aiuti per la maternità). Tant’è che emerge dalle risposte del 40,4% degli intervistati, i quali non avendo figli dichiarano di volerne avere almeno uno, e dalle risposte di un terzo di quelli che ne hanno, ma che ne vorrebbero altri.
Si scopre allora che lo scenario drammatico prospettato è già presente e coincide con lo sviluppo che abbiamo disegnato. Attendevamo infatti lo sviluppo dall’economia e dalla tecnica, dagli automatismi senza volto del progresso, e ci siamo persi l’umanità. Cosicché i nostri luoghi, le nostre disponibilità e possibilità sono cresciuti nella misura in cui ci siamo deprivati di relazioni significative e di persone intorno a noi.
La nostra era infatti un tempo una società con tanti bambini che si rincorrevano per strada. Non c’erano luoghi e spazi per giocare né giochi preconfezionati, ma dovevamo inventarceli. E i palloni li confezionavamo usando bottiglie di plastica o pressando della carta in una busta a formare una sfera. Abitavamo in una stanza in tanti, mentre ora ne abbiamo tante di stanze, ma non siamo più tanti e siamo sempre più vecchi e soli. Da bambini ci passavamo cappotti e maglioni usati dal fratello maggiore per poi lasciarli al più piccolo: ora abbiamo guardarobi pieni, ma non sappiamo il più delle volte che farcene. Siamo angustiati da oggetti inanimati, mentre tutto è a posto, ordinato nel cassetto, ma ci manca lo strepitare dei bambini in casa.
Dunque, è un po’ sinistro quello che abbiamo costruito e, per certi versi, desolante. Ed è quello che Adamo ci racconta mettendoci a fronte di una possibilità che forse non è nemmeno tanto remota.
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