Le città invisibili, che tanto fascino esercitano nella letteratura, esistono davvero, ma viste nella loro concretezza perdono ogni forma di poesia per lasciare spazio al fango, alla segregazione e allo sfruttamento. Oggi queste città, reali ma nascoste agli occhi di tutti coloro che non vogliono vederle, sono i vari insediamenti dei braccianti agricoli, soprattutto di origine subsahariana, che punteggiano le campagne del sud Italia.
Uno di questi luoghi è, o forse bisognerebbe dire “era”, situato a Boreano, una contrada del comune di Venosa, in provincia di Potenza, al confine tra Puglia e Basilicata. Si tratta di uno spazio praticamente privo di vita, composto da qualche casa abbandonata, una piccola chiesa e, poco lontano, una striscia di terra incolta e popolata di baracche adibite a rifugio per centinaia di persone. Sono storie tipiche di questi anni, quelle di persone che in molti casi sono arrivate in Italia a bordo di barconi in fuga dalla miseria o dalla persecuzione politica, se non dalla guerra. La strada di Boreano si incrocia con la rotta che porta in Europa le persone formando in queste aree comunità ivoriane, burkinabè, ghaneane e nigeriane. Qui le persone dormono su materassi di fortuna, mangiano quello che riescono a ottenere e trascorrono le giornate tra la raccolta dei pomodori e la ricerca di qualche spazio di normalità.
Eppure, anche situazioni come questa possono peggiorare: nella notte tra sabato e domenica, infatti, la città invisibile di Boreano è stata distrutta da un incendio che si è portata via tutte le abitazioni. «A differenza delle altre volte parliamo di un incidente – racconta Daniele Troia, sovrintendente del XIV circuito della chiesa metodista e valdese – causato dallo scoppio di una bombola di gas». In effetti, non si tratta del primo incendio in questo luogo: «già l’anno scorso ce n’era stato uno – ricorda il sindacalista Aboubakar Soumahoro, responsabile nazionale immigrazione di Usb, Unione Sindacale di Base – ma questo è arrivato a meno di una settimana da un’assemblea che aveva riunito una cinquantina di braccianti che avevano deciso di organizzarsi sul piano sindacale e sociale per la salvaguardia dei loro diritti, per una paga giusta e per migliori condizioni abitative, un percorso avviato grazie anche all’aiuto della chiesa metodista di Venosa».
Accendere la luce
Boreano non è soltanto un luogo di segregazione, perché a differenza di altre “città invisibili”, qui ci sono persone che hanno deciso di puntare il dito, segnalare una situazione insostenibile e accendere i riflettori su uno spazio che racconta molte storie, e che ora stanno cercando una sistemazione per rispondere a un’emergenza che si è abbattuta lavoratori che sono prima di tutto esseri umani e che ora sono senza un tetto. «Al momento – spiega Daniele Troia – la comunità locale è stata allertata per tenerci a disposizione insieme agli altri partner con i quali collaboriamo, come la Caritas diocesana, per valutare quale contributo riuscire a portare. Ora le persone che si trovano a Boreano hanno bisogno di tutto, perché questo incendio ha portato via anche il poco che rimaneva».
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Al di là dell’emergenza di questi giorni, la situazione per i braccianti di Boreano e delle altre città invisibili ricorda quella dei campi profughi lungo i confini dei paesi in guerra, e i volti raccontano le stesse paure e le stesse sofferenze, riportando l’attenzione sulla necessità di costruire percorsi quotidiani. «Non abbiamo ancora un progetto circuitale – prosegue Troia – ma stiamo lavorando per individuare almeno un’area di intervento. Probabilmente sarà quella di Foggia, dove abbiamo già compiuto un’azione lo scorso autunno, quando la colletta dell’assemblea annuale fu destinata a interventi immediati, come la raccolta di indumenti o l’acquisto di medicinali di base. Speriamo di riuscire, anche grazie alla presenza della diacona Plavan, che vive a Cerignola, a strutturare un minimo di progetto».
Non solo migrazione
La dimensione di migranti non può essere separata da quella di lavoratori, e viceversa. «La loro condizione prescinde dalla provenienza geografica – spiega Soumahoro – e questo va ricordato per evitare di etnicizzare la questione». Il problema è che il sistema di sfruttamento si innesta principalmente sugli stranieri senza permesso di soggiorno perché sono più vulnerabili, e ridurre questa condizione subalterna passa anche dai giusti strumenti, come il corso di lingua attivato negli ultimi anni nelle strutture della chiesa a Venosa grazie al lavoro di numerosi volontari. Includere attraverso servizi, fornendo gli strumenti per potersi reggere sulle proprie gambe e per poter rispondere a un sistema che costringe in gabbie, fisiche e mentali, tutti coloro che non hanno alternative: la strada che Usb e la chiesa metodista hanno deciso di percorrere insieme passa non soltanto attraverso le azioni nei luoghi della raccolta della frutta, ma anche garantendo spazi e servizi in grado di dare certezze. «Il nostro impegno – prosegue Daniele Troia – è quello di cercare di creare dei percorsi di integrazione all’interno della città di Venosa. Ci siamo impegnati per cercare delle abitazioni, poi abbiamo aiutato i migranti a stipulare i contratti e ci siamo fatti garanti presso i proprietari di casa anche per eventuali canoni di locazione da integrare. In realtà al momento non c’è mai stato bisogno di intervenire una volta firmato il contratto. Insieme all’Usb abbiamo inoltre contribuito a costruire uno sportello per migranti al fine di agevolare le pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno o le varie situazioni nelle quali possono trovarsi questi lavoratori». Di fronte all’emergenza umana e umanitaria, la parola “lavoratore” rischia di diventare, come la città, invisibile. «L’obiettivo dello sportello – ricorda Soumahoro – è anche sindacale: bisogna dare, tanto ai lavoratori quanto ai datori di lavoro, degli strumenti per prendere coscienza di quanto accade sul territorio e di come coniugare diritti e doveri dei lavoratori. Per andare a parlare con il mondo dei datori di lavoro o a parlare con le istituzioni è necessaria una dimensione organizzativa, e l’assemblea della scorsa settimana, che si è svolta alla presenza anche del sindaco di Venosa, rappresentava uno dei punti di arrivo. I lavoratori di Boreano non sono più soggetti passivi, ma sono protagonisti di un percorso per dare una svolta alla propria condizione lavorativa e di vita».
Non ritornare nel buio
Ora, per queste persone, per questi individui che hanno diritti e storie da difendere, come esseri umani che poi possono essere lavoratori, si apre una nuova fase di incertezza, che potrà essere colmata nell’immediato dalle donazioni e dall’attenzione che l’evento traumatico ha sollevato. «Il problema grosso di queste persone e delle situazioni simili a questa– conclude Troia – è che quando si spengono i riflettori tutto finisce nel dimenticatoio. Speriamo non succeda anche questa volta».
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