Secondo l’ultima relazione ministeriale gli aborti noti, certificati dagli ospedali, sono stati 107.192 nel 2012 e 102.644 nel 2013, ma quest’ultimo dato è incompleto.
Ciò significa che ogni anno scompare una città grande pressappoco come Novara, Bergamo, Piacenza, Trento, Forlì, Siracusa, più grande di Pisa, Lecce, Catanzaro… Se poi facciamo la somma di tutte le interruzioni volontarie di gravidanza dall’entrata in vigore della legge 194, cioè dal 5 giugno 1979, otteniamo la cifra di 5.541.421 è un numero più alto della popolazione di Roma e Milano messe insieme. Il problema vero però è che si tratta di cifre molto inferiori alla realtà.
Per valutare appieno la tragedia bisogna aggiungere gli aborti clandestini chirurgici e quelli – ormai innumerevoli – “chimici” prodotti dalle varie pillole (del giorno dopo, dei cinque giorni dopo). Senza contare, poi, il facile uso di medicamenti antiulcera, che hanno lo stesso effetto della pillola Ru486. Insomma, la diminuzione degli aborti registrati ufficialmente non dimostra una reale diminuzione nella misura che viene propagandata come prova della “bontà” della legge. Basti pensare che – a causa del crollo delle nascite – il numero delle donne di età in cui è massima la fertilità, tra i 20 e i 35 anni, è diminuita tra il 1983 e il 2011 di ben 2.083.335 unità. Il che, ovviamente, determina una minor quantità di concepimenti e quindi di aborti. Ricordiamo sempre i bambini uccisi prima di nascere. Il concepito è un essere umano: egli deve essere considerato un bambino proprio come quello che, ritrovato in un cassonetto, fa inorridire tutti.
C’è poi un altro aspetto. A una cultura riduttivistica dell’aborto (per cui si vogliono pillole fai da te dispensate addirittura in farmacia e interruzioni di gravidanza autorizzate in consultorio) si contrappone quella del figlio ad ogni costo, con ogni mezzo. La dispersione di ovuli fecondati non è altro che la morte provocata di embrioni appena concepiti in provetta. Perciò è un rischio inerente ad ogni fecondazione in vitro, omologa od eterologa che sia. La legge 40 del 2004 aveva cercato di limitare tale rischio disponendo che ad ogni embrione dovesse essere data una speranza di vita mediante il suo immediato trasferimento nel seno materno.
Purtroppo, la “cultura dello scarto” ha prevalso nella Corte Costituzionale che ha molto attenuato questa disposizione: ora, con la legittimazione dell’eterologa, è intervenuta una demolizione ancora più grave del confine che la legge aveva costruito. Ogni bambino ha diritto ad avere un padre ed una madre certi ed ha diritto di conoscerli. Ridurre il figlio ad un prodotto, commercializzarne l’origine, peggio ancora: tradire la maternità nella sua prima iniziale fase, che è un continuo abbraccio che più intimo non si può, cuore a cuore, fra madre e figlio, è davvero qualcosa di inaccettabile.
Antonella Folgheretti – notiziecristiane.com
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