Bekaa, rifugiato siriano si dà fuoco: il Covid-19 crea disperazione e abbandono (Video)

Bassam Al Hallak è morto dopo sette ore di agonia. Il figlio Haitham: Nessuno ha fatto qualcosa, nemmeno l’Onu. L’uomo era disoccupato da due anni e temeva che l’epidemia avrebbe accresciuto la miseria. Rifugiati siriani considerati come portatori del virus e perciò discriminati.

Beirut (AsiaNews) – Bassam Al Hallak, rifugiato siriano 52enne, si è dato fuoco ieri mattina nella povera periferia di Taalbaya (Bekaa). Il Covid-19 aveva accresciuto la sua disperazione, essendo profugo e disoccupato. Portato d’urgenza nel vicino ospedale della Bekaa, presentava ustioni di terzo grado. La moglie e i figli hanno sentito le grida di allarme dei vicini, vedendo l’uomo ardere mentre camminava per la strada. Nel pomeriggio di ieri l’uomo è morto.

La famiglia era giunta sei anni fa a Taalbaya, provenendo da Daraya, nell’hinterland di Damasco. Per la sua dignità, Bassam ha rifiutato di andare a vivere sotto le tende in un campo profughi e ha cercato di lavorare. Ma questa scelta gli è costata cara: secondo il figlio dell’uomo, Haitham, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati gli ha negato più volte ogni sostegno economico ed alimentare. Il giovane 27enne ricorda anche che il padre “ha comunque perso il lavoro di muratore due anni fa e non poteva nemmeno pagare l’affitto mensile di 400mila lire libanesi (circa 180 dollari Usa)”.

“Come noi – conclude Haitham – ce ne sono tanti”. Il riferimento è ai 5mila rifugiati siriani nella zona, raccolti nei campi profughi o nelle misere case private dei sobborghi.

All’Ospedale della Bekaa, prima di accogliere l’uomo ustionato, hanno dovuto aspettare le garanzie dell’Unhcr (l’Alto commissariato Onu per i rifugiati). Avevano deciso di trasferirlo a Jetawi (Ashrafieh, Beirut), dove vi è un ospedale specializzato per ustioni, ma l’approvazione è giunta molto tardi e Bassam è morto dopo sette ore di agonia all’ospedale vicino a casa sua.

“Per molte ore nessuno ha risposto alle nostre richieste di aiuto, mentre mio padre agonizzava nel silenzio”, ha aggiunto Haitham. Il sindaco Sadek Mehyiddin cerca di spiegare: “La famiglia viveva in pessime condizioni di miseria. Riceviamo molte richieste da parte di famiglie bisognose, dopo che il governo ha deciso per un aiuto economico di 400mila lire mensili ad ogni gruppo familiare. Ma questi aiuti sono riservati solo ai libanesi”. I siriani, invece, sarebbero a carico dell’Unhcr, che ha ridotto i suoi aiuti, compresi quelli medici.

Molti siriani in Libano rimpiangono di non essere rientrati in Patria durante I due giorni di tempo concessi dal governo siriano prima di chiudere il confine col Libano. Molti tentano lo stesso di rientrare passando il confine clandestinamente, ma in Siria sono guardati con sospetto perché fuggendo da un Paese infetto, si pensa siano portatori del coronavirus.  Ad ogni modo, finora, nessun siriano in Libano è stato diagnosticato come positivo.

Dall’inizio di marzo, almeno otto municipi libanesi hanno imposto il divieto di circolazione ai rifugiati siriani, ancora prima delle misure imposte dal governo libanese. A tutti è permesso circolare per acquisti alimentari dalle 5 del mattino fino alle ore 19. Ma alcuni municipi, come quello di Britel (Baalbek), permette ai siriani di uscire solo dalle 9 del mattino fino alle ore 13.

di Pierre Balanian | Asianews.it

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