Coronavirus, il dramma dei pazienti a Bergamo: “Dica a mia moglie che l’amo”

Un chirurgo che lavora in un’ospedale di Bergamo racconta qual è la situazione e in che modo ha adattato la sua vita all’emergenza Coronavirus.

In un’intervista concessa al ‘Corriere della Sera’, la dottoressa confida di essere costretta a tenersi a distanza dai suoi figli e ad indossare la mascherina pure in casa.

La vita del Chirurgo in tempo di Coronavirus

In questi giorni gli italiani hanno condiviso delle manifestazioni di solidarietà nei confronti dei medici costretti a turni estenuanti in corsia. Negli ospedali della Lombardia, in quelli dell’Emilia Romagna, del Veneto e del Piemonte la situazione è talmente grave che medici e infermieri sono costretti a turni senza fine. Ma gli sforzi di quelli che possono essere definiti eroi del quotidiano non si limitano a quelli sul posto di lavoro. Tutta la loro vita è condizionata dall’emergenza sanitaria ed il rapporto con i compagni ed i figli sono necessariamente cambiati.

A spiegare come si modifica la vita di un medico che si trova a contrastare il Coronavirus ci ha pensato un chirurgo che lavora nell’ospedale di Bergamo. La dottoressa ha infatti concesso un’intervista al ‘Corriere della Sera’ in cui emerge tutta la drammaticità della condizione che è costretta a vivere: “Quando sto per arrivare a casa avviso mio marito perché tenga i bambini lontani. Vado in bagno, butto tutto da lavare, sto sotto la doccia per 40 minuti, mi sfrego con acqua e sapone. Poi mi infilo la mascherina e, comunque, tengo i miei figli a distanza. Ho tagliato i capelli corti per evitare il più possibile di portami a casa qualcosa”.

Le dure condizioni e il dramma dei pazienti

La dottoressa rifiuta il titolo di eroe e quando le fanno presente che ormai avrà cercato di rianimare decine e decine di pazienti, lei fa capire che fa parte del suo lavoro. Certo, sottolinea anche che a questa situazione non bisognava arrivarci: “Ma noi medici non dobbiamo essere messi nelle condizioni di fare quello che facciamo. Qui ci sono delle responsabilità con nomi e cognomi. La zona rossa della Valle Seriana andava istituita subito. Gli studi epidemiologici erano chiari, dall’inizio di Wuhan, e la scienza non è un’opinione”.

Alle difficoltà legate al dover accettare l’ingresso di pazienti la cui salvezza al momento è legata anche alla sorte, si aggiungono le storie strazianti di molte famiglie a cui i medici assistono con una continuità disarmante: “Il paziente sa che cosa sta succedendo, glielo leggi negli occhi. ‘Dica a mia moglie che la amo’ o ‘mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere,’ ti dicono. Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori. Ai parenti, diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante. Noi medici resistiamo, dobbiamo, ma siamo già vicini al crollo psicologico per la fatica, le ansie, e perché stiamo perdendo amici cari”.

Da Luca Scapatello | Fonte

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