Matteo 5:21-24 (Prima Antitesi)
Le antitesi sono un blocco di sei esigenze etiche che Gesù ha promulgato nel suo famoso discorso sul monte. Esse non hanno la pretesa di rivoluzionare la legge morale antico testamentaria, proponendo una nuova legislazione, bensì le antitesi si presentano come una ricomprensione della volontà originaria di Dio e un approfondimento delle norme etiche, imbarbarite dalle interpretazioni cavillose e astruse dei Maestri della Legge e incapsulate dentro una arida e formale raccolta casistica.
Con esse Gesù si contrappone non solo alle tradizioni giudaiche, ma anche alla legge stessa, conferendo a se stesso una autorità che trascende quella di Mosè. La proclamazione del Regno determina una tensione tra il vecchio ordine legalizzato dal macchinoso insegnamento rabbinico e il nuovo ordine che stava instaurandosi tra Dio e l’umanità, rinnovata dalla predicazione messianica di Gesù. Tutte e sei le antitesi sono scandite ritmicamente dalla formula introduttiva “Avete udito che fu detto (eccetto la terza che riporta “fu detto” ) seguita dalla frase avversativa “ma io vi dico”. Il v.48 compendia l’esigenza etica di Gesù.
Le esigenze etiche descritte nelle sei antitesi non sono una formulazione teologica di principi etici generali ed astratti, ma si rivelano come esempi concreti del principio teologico enunciato da Gesù ai versetti 17-20. Infatti, Gesù annunciò autorevolmente che i suoi discepoli devono bandire dalla loro performance l’adesione letterale e formale al dettame etico divino, radicalizzando motivazione e atteggiamenti. Inoltre, è doveroso affermare che l’uditorio a cui furono rivolte le norme etiche anticotestamentarie furono “gli antichi”(gr. Archaiois”), ossia coloro ai quali fu data la legge al Sinai. Gesù si oppone alla legalismo e non alla legge veterotestamentaria, che rappresenta il suo punto di appoggio per lanciare potentemente e autorevolmente la sua etica.
La prima antitesi riguarda l’irascibilità portata da Gesù sullo stesso piano dell’omicidio. C’è uno aforisma del filosofo inglese Francis Bacon (1561-1626) che recita così: “L’ira rende brillanti gli uomini ottusi, ma li fa restare poveri” (“anger makes dull men’s brilliant, but also makes them stay poor”).
L’ira è un pericoloso moto irrazionale dell’animo umano,che, se non è controllato, rovina precipitosamente e a volte irrimediabilmente le relazioni interpersonali, sfociando spesse volte nella tragedia. Non è il caso in questa sede di addentrarci in riflessioni filosofiche, le quali hanno cercato di “imbrigliare” il demone dell’ira dentro le categorie concettuali di una “ misurata espressione”, ossia non deve essere repressa né violentemente espressa, ma vogliamo fortemente sottolineare cosa Gesù ha voluto esprimere, quando egli mette sullo stesso piano l’omicidio come azione tesa a prendere la vita fisica di una persona e l’ira come pericolosa, incontrollata alterazione mentale e emotiva dell’individuo la cui conseguenza è anch’essa drammatica e, comunque, ha il suo centro propulsore nell’animo dell’uomo.
Innanzitutto, è doveroso spiegare meglio che il sesto comandamento “Non uccidere” debba essere diversamente formulato con l’espressione “non commettere omicidio”, intendendo con ciò l’azione individuale all’interno del consorzio sociale, diversamente da quello che potrebbe essere l’azione di guerra che uno stato intraprende o l’esecuzione della pena capitale, pratiche presenti in diversi stati oggi come era presente nei tempi dell’era mosaica(la legge mosaica, che proibisce l’omicidio nel decalogo, altrove imponeva esso nella pena capitale e nella guerra designata a sterminare le tribù pagane che abitavano la terra promessa). I temi della guerra e della pena capitale sono stati sempre temi dibattuti all’interno della chiesa e che suscitano perplessità tra i cristiani. Non sarà qui la sede del dibattito per trattare questi spinosi problemi etico-sociali. Ma era opportuno fare questa distinzione quando noi cercheremo di capire perché e in che misura Gesù ha paragonato l’irascibilità all’omicidio.
Per prima cosa, bisogna dire che i Farisei intendevano l’omicidio come l’atto del versare il sangue umano ed era quello che veniva insegnato al pio giudeo. La frase seguente alla citazione del sesto comandamento –“colui che avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio”- non è una citazione veterotestamentaria, ma riassume l’insegnamento veterotestamentario sulla pena comminata per l’omicidio (cfr. Gen.9:6; Num 35:16-34). Se l’insegnamento rabbinico aveva il sapore dell’acre legalismo, quello di Gesù lo trascendeva radicalizzando il comando divino “non commettere omicidio”.
Gesù usa una espressione perlomeno sconvolgente. Egli dice: “ Ma io vi dico”. Sembra che Gesù abbia autorità nel modificare il senso del comando divino. Egli non dice: “il Signore dice”, ma, “Io vi dico”, che è l’espressione tremendamente divina in procinto di annunciare un volere divino.
Cosa dice Gesù? Egli afferma che non solo l’omicidio in sé è condannabile, ma anche l’ira che nessun tribunale umano può giudicare, ma che agli occhi di Dio non è meno ripugnante dell’omicidio stesso. L’ira era condannata nel VT, ma essa non era paragonata all’omicidio, ma Gesù lo ritiene meritevole dell’inferno.
L’ira come espressione dell’amore proprio, dell’odio, della vendetta è una delle cause generanti l’efferatezza di molti omicidi. Gesù parla particolarmente dell’ira contro il proprio fratello, ossia contro chi condivide la stessa fede (L’ira era già stata condannata in Levitico 19:17-18), sebbene nel pensiero di Gesù essa venga estesa all’uomo nelle sue relazioni sociali (cfr. Lc.10:29). L’ira si esprime anche con l’uso di frasi velenose, volutamente dette con cattiveria per ferire la sensibilità del nostro interlocutore, per ucciderlo dentro, mentre si assapora dolcemente la sua sofferenza agonizzante.
Gesù usa il termine aramaico di “Raca”, che significa “vuoto”, “idiota”, che equivale alla nostra
bella,simpatica e colorita espressione di “uovo sodo”, cioè una persona priva di intelligenza e di personalità. L’altro termine che Gesù usa è la parola “stolto” o “pazzo” (gr. Morè), che Gesù usa per scagliarsi contro i Farisei (cfr. Mt 23:17), ma che ha un significato diverso da quello che Gesù condanna ( questo significa che Gesù usa la stessa parola per conferire sia un significato religioso sia un significato morale: essa è applicata per designare coloro che negano l’esistenza di Dio e come un risultato di una esternazione malvagia sconsiderata). Come scrive Giovanni più tardi, chi odia suo fratello è omicida (cfr. 1^Giov. 3:15), la rabbia o l’insulto sono sintomi oscuri di sbarazzarsi di qualcuno che si trova davanti a noi a cui è rivolta tutto il nostro acredine. I nostri pensieri e le nostre parole rivelano chiaramente che noi vogliamo morto il nostro interlocutore. Questo nostro atteggiamento brutale infrange il sesto comandamento. Ciò ci rende passibili di pena allo stesso modo di colui che ha fisicamente ucciso. Ma è un giudizio che non è espresso da una normale, umana aula giudiziaria, ma da Dio stesso.
Continuando Gesù nella sua disamina sulla irascibilità umana come male morale, egli fa riferimento a due illustrazioni, la prima tratta dalla vita cultuale giudaica e la seconda, invece, dalla tecnica dell’insegnamento parabolico. Che cosa vuole dire il Signore con le due illustrazioni? Esse irrobustiscono l’impianto accusatorio contro coloro che, credono di farsela franca, conservando la loro sete di vendetta contro il loro fratello. Gesù dice che, essendo l’ira e gli insulti, che ne conseguono, seri e dannosi, il cristiano deve respingerli come moti dell’animo che destabilizzano la sua spiritualità.
La prima illustrazione è tratta dalla vita cultuale e, precisamente, dal rito sacrificale nel Tempio (5:23-24).Se Dio punirà l’ira, non è lecito adorarlo formalmente se i risentimenti non saranno fugati. Si hanno diverse invettive proferite dai profeti che denunciavano l’inutilità delle offerte cultuali quando il cuore del pio giudeo era lontano dal Signore. L’offerta di cui sta parlando Gesù era probabilmente il sacrificio di un animale, che veniva offerto al Signore nel Cortile dei Sacerdoti dove era situato l’altare previo il dovuto permesso. Ma il suo significato va esteso ad ogni manifestazione cultuale del credente. E probabilmente questa illustrazione ci dice che l’adoratore di Dio nel culto domenicale, ricordandosi che qualcuno ha qualcosa contro di lui (forse qualcuno appartenente alla stessa chiesa, ma può essere che sia un credente di un’altra chiesa o,forse, un compagno di umanità che non crede), deve astenersi dall’attività cultuale (il cui apice spesso coincide con la Santa Cena) e correre spedito per riconciliarsi con suo fratello o con il suo compagno di umanità, altrimenti il suo culto è falso e ipocrita e le sue preghiere non arrivano neppure al soffitto.
La seconda illustrazione è una parabola tratta dalla vita giudiziaria. Se due persone stanno raggiungendo il tribunale dove la loro causa sarà celebrata, chi ha danneggiato il suo prossimo è invitato a risolvere la cosa pacificamente prima che la controversia passi tra le mani dei giudici, i quali daranno una sentenza punitiva senza avere possibilità di appello (Mt 5:25-26). Chiaramente questa scena di contenzioso giudiziario non riflette il nostro ordinamento giuridico, che contempla la possibilità di appello del condannato fino a quando la sentenza non sarà tassativa. Ma Gesù ha voluto usare la retorica del paradosso per evidenziare l’inappellabilità del credente davanti al tribunale divino. Il credente non deve trastullarsi sul fatto che è salvato per grazia( la conversione, purtroppo, è oggi un affare di Chiesa che una azione di Dio. Ciò significa che essa è pilotata dalla chiesa, promettendo una grazia a buon mercato, che non costa niente, che non coinvolge l’esistenza umana, rimanendo essa intatta come era prima della conversione: la salvezza è una assicurazione della vita. E’ meglio assicurarsi il futuro ultramondano, non si sa mai, ma la vita intraterrena scorre normalmente senza sensibili cambiamenti.
L’ira, gli insulti, i turpiloqui sono nocivi al pari dell’omicidio. E se i Cristiani non prestano seriamente attenzione a questo mal vivere renderanno la testimonianza anemica, non credibile, detestabile. E’ opinione comune che molta gente disprezza il Cristianesimo perché considera i Cristiani veri campioni di crudeltà e di mistificazione. E non ha tutti i torti. E’ vero che i maggiori nemici del Cristianesimo sono i Cristiani non i pagani. Perché? Dicono e non fanno. Adorano il Signore la domenica e durante la settimana lo disonorano con un comportamento riprovevole. I detti popolari non sono lontani per niente dal questa verità: da “i Baciabanchi” del dialetto veneto a quello siciliano di “paddinara”, ossia “coloro che stanno attaccati all’abito talare dei preti nella loro funzione cultuale( questa parola è detta in maniera trasversale, interessando tutte le confessioni e denominazione) oltre che la frase colorita siciliana “Ama u signuruzzu e futti u’ prossimu” (Ama il Signore e frega il prossimo).
Il grido del credente che invoca libertà dall’ira e dall’insulto e che a sua volta è offeso e vilipeso, raggiunge la Chiesa di Cristo che prega, proferendo queste parole: “Cari fratelli e sorelle, voi siete la Chiesa di Gesù. Esaminate voi stessi, se nel momento in cui voi vi presentate al Signore in preghiera nel servizio sacro, ascoltate il grido di dolore di tanti fratelli offesi e vilipesi dalle parole dette con astio e volutamente per offendere uccidendoli dentro. Queste grida di dolore si frappongono fra voi Dio impedendo di tributare un culto gradito al Signore”.
Ancora una volta ci incoraggiano le parole balsamiche del nostro caro Bonhoeffer, il quale si esprime nel seguente modo:
“ … Chi vuole celebrare un culto sincero, stando al seguito di Gesù, ha una via sola, la via della riconciliazione con il fratello. Chi si presenta ad ascoltare la Parola e a celebrare la Santa Cena con cuore non riconciliato si espone al giudizio. Egli al cospetto di Dio è un omicida. Perciò “va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna e offri il tuo dono”. La via che Gesù pretende da chi lo vuole seguire, è difficile. Richiede la accettazione di essere molto umiliati e oltraggiati. Ma è la via che porta a lui, al fratello crocifisso, e perciò una via piena di grazia. In Gesù il servizio del minimo dei fratelli e il culto reso a Dio sono tutt’uno. Egli andò e si riconciliò con il fratello e poi offrì al Padre l’unico vero sacrificio, se stesso. “ (1)
- Dietrich Bonhoeffer- Sequela-Queriniana ed, Brescia 1971, pag. 110
Paolo Brancè | Notiziecristiane.com
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