I problemi di Facebook non riguardano solo il comportamento dei cosiddetti “cattivi attori”, ciò che è in gioco è la democrazia.
(ve/cc) Durante le elezioni del 2016 la disinformazione politica ha proliferato su Facebook. Da allora il gigante dei social media è stato sulle difensive riguardo ai suoi effetti nocivi sulla democrazia. Di recente ha pubblicizzato i propri sforzi volti a perseguire gli individui che creano regolarmente falsi account, promuovono discorsi di incitamento all’odio o violano in altri modi gli standard comunitari dell’azienda. Facebook fa spesso riferimento a questi trasgressori recidivi come “cattivi attori”.
I buoni e i cattivi
Anche se l’idea che pochi siano i cattivi attori e il resto di noi sia costituito da brave persone è fin troppo semplice, essa aiuta Facebook a inquadrare i suoi problemi di democrazia come bug in un sistema altrimenti benefico. In realtà questi problemi sono parte integrante dell’attività principale dell’azienda che consiste nell’attirare l’attenzione delle persone, raccogliere le loro informazioni personali e vendere il tutto agli inserzionisti. Disinformazione rivolta ai creduloni, pubblicità politica volta a fomentare pregiudizi e paura, la “bolla dei filtri” che elimina il dissenso dal vostro news feed – sono tutte indicazioni che Facebook funziona come previsto: mantiene i suoi utenti coinvolti, i suoi inserzionisti felici e le sue azioni redditizie.
Il danno che Facebook ha fatto alla democrazia è radicato proprio nelle cose che ne determinano il successo
Gran parte del successo di Facebook è stato ottenuto a spese di un pilastro della democrazia: il giornalismo d’informazione. Era così ancor prima che il traffico web degli editori di notizie morisse o vivesse in base ai capricci algoritmici di Facebook. Le fonti di notizie tradizionali sfruttano da tempo informazioni verificabili, controllate professionalmente. Ciò è in netto contrasto con quanto viene fornito da Facebook – eppure Facebook ha conquistato gran parte dell’attenzione dei consumatori e del business degli inserzionisti di cui un tempo beneficiava il giornalismo d’informazione. E infatti Facebook – dove è difficile sapere che cosa credere o quali voci manchino -, è oggi per molte persone la principale fonte di informazione.
Investire nella democrazia
Se a Facebook importasse della democrazia, dovrebbe investire in essa. Brooke Binkowski, una giornalista che ha analizzato il ruolo di Facebook nelle elezioni del 2016, ha fatto alcune proposte al riguardo. Scrivendo su “USA Today”, esorta Facebook a fornire agli utenti gli strumenti per scegliere se e come i suoi algoritmi debbano determinare ciò che vediamo. Dovrebbe stabilire regole ben definite contro la disinformazione e quindi abilitare dei moderatori a eliminare certi messaggi falsi, piuttosto che fare appello alla libertà di parola per tollerare la disinformazione e trarne profitto. E dovrebbe istituire un fondo per aiutare le redazioni locali a fare il loro lavoro.
Sostenere una stampa libera significa sostenere la libertà di parola
Facebook potrebbe fare una grande differenza per la democrazia se prendesse sul serio idee come queste. E anche il pubblico potrebbe fare una differenza – certo, più piccola – uscendo da Facebook e abbonandosi a un quotidiano.
L’azienda vuole che crediamo che si sta occupando dei “cattivi attori”, delle persone di cui non ci si può fidare che usino la rete come previsto. Ma considerato che il suo scopo è di attirare la nostra attenzione e, usando un algoritmo opaco, trasformarla in una quantità sempre maggiore di click e di denaro degli inserzionisti, non c’è ragione di fidarsi, almeno finché Facebook non farà cambiamenti più profondi. (in The ChristianCentury; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)
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