Mark Schwyter è assistente spirituale nel penitenziario di Lenzburg, nel canton Argovia. Il pastore riformato cerca il dialogo con i detenuti in una fase difficile della loro vita.
(ve) Dopo avere lavorato per dodici anni come pastore in una parrocchia evangelica riformata, Mark Schwyter ha deciso di dedicarsi alla cura pastorale dei detenuti. Nel suo lavoro nel carcere di Lenzburg, nel canton Argovia (nella foto) incontra donne e uomini che sono finiti dietro le sbarre dopo avere commesso dei reati più o meno gravi. E che spesso sono alla ricerca di un senso per la loro vita.
Come inizia una conversazione con un nuovo detenuto?
Mi presento e dico, a lui o lei, che mi fa piacere fare la sua conoscenza. Nel caso di persone in carcerazione preventiva, che hanno commesso da poco dei reati, entrare in dialogo è più facile. Sono privi di informazioni, non hanno contatti con il mondo esterno e non sanno che cosa succederà. Si preoccupano della moglie, del lavoro, hanno sensi di colpa. Per loro è un momento di disorientamento.
Di che cosa parla con chi è detenuto da più tempo?
Parliamo spesso del senso da dare al tempo trascorso in carcere. Si chiedono se quella che vivono in carcere sia davvero una vita, o se la vita vera inizierà solo dopo la scarcerazione. Molti hanno avuto problemi per tutta la loro esistenza e la reclusione non fa che peggiorare le cose.
Che cosa può dare ai detenuti?
Apprezzano il fatto che io mi prenda il tempo per ascoltarli. Non faccio parte del sistema giudiziario, sono semplicemente qualcuno che si interessa a loro. Chiedo loro che cosa fanno, che cosa hanno visto in televisione, che cosa leggono. Molti non ricevono mai visite. È possibile che abbiano causato molto dolore, ma di fronte a me ci sono persone che soffrono per il loro quotidiano, per il loro passato, per il loro futuro. Insieme cerchiamo di trovare degli aspetti positivi.
Markus Schwyter
La detenzione è una condizione difficile, tuttavia non è priva di speranza. Alcuni sentono di aver compiuto progressi. Sono felici all’idea di uscire e poter affrontare le cose in modo diverso. Altri trovano la pace dopo molti anni di stress. In carcere non è molto diverso rispetto a fuori. Fuori ci sono più opportunità di trovare un senso alla vita, eppure ci sono molte persone che faticano a trovarlo.
Parlate anche dei motivi che hanno spinto a commettere dei delitti?
A volte ne parliamo. C’è sempre un contesto che ha portato a quel punto. Io non condanno, perché entro nel carcere per ascoltare il detenuto che sta seduto di fronte a me.
C’è qualche elemento che la colpisce in modo particolare?
Il fatto che qualcosa possa sfuggire di mano malgrado le tante vie d’uscita disponibili. Ma lo sappiamo noi stessi: siamo stanchi eppure andiamo al bar, beviamo un bicchiere di troppo e saliamo in auto brilli. Oppure facciamo qualcosa che da sobri non faremmo mai. Gli esseri umani non sono sempre ragionevoli e le concatenazioni di eventi sfociano spesso in tragedie. In quanto assistente spirituale, la domanda più importante è: che cosa possiamo fare rispetto a ciò che è accaduto? E la teologia ha qualcosa da dire in merito?
Nelle conversazioni con i detenuti entra in gioco anche la fede?
Poiché mi presento come uomo di chiesa alcuni vengono proprio per parlare della fede, o per dirmi che non credono. Nella maggior parte dei casi a un certo punto chiedo se vogliono pregare. Con alcuni leggo episodi della Bibbia, per esempio il racconto di Giobbe o di quando Gesù fu tentato. Dio ha una relazione con noi e a volte noi facciamo cose che rovinano questa relazione. Come si ripristina la relazione? Questo è ciò di cui parlo e che vivo occupandomi dei detenuti.
Perché ha smesso di occuparsi di una parrocchia e ha deciso di fare l’assistente spirituale in carcere?
Ho lavorato per dodici anni come pastore in una parrocchia evangelica riformata. Poi sono stato responsabile dell’ufficio della chiesa cantonale di Zurigo che si occupa delle questioni legate alla condizione maschile. Le questioni di genere mi hanno sempre interessato, e tra l’altro mi sono posto la domanda come mai gli uomini compiano molti più reati delle donne. In seguito ho iniziato a lavorare come assistente spirituale in carcere e ho completato una formazione specifica per operare in questo ambito.
Perché in carcere ci sono più uomini che donne?
Da un lato a causa del testosterone, che può favorire comportamenti positivi, ma anche l’aggressività. Dall’altro a causa di aspettative di genere stereotipate: gli uomini devono essere pronti a reagire, disposti a rischiare e devono mantenere la famiglia. Chi non ha né una formazione né un lavoro può compiere dei delitti per procurarsi denaro.
Un’infanzia difficile può favorire un comportamento criminale?
Sì, molti mi raccontano che il padre era assente, non c’era quasi mai o era violento. In mancanza di un modello maschile, per un ragazzo è difficile scoprire la propria identità, ciò che fa di lui un uomo e una persona. La scarsa fiducia in se stessi può essere compensata con comportamenti che possono portare a compiere dei reati e a finire in carcere. Tuttavia non è colpa del padre se si rapina un chiosco. La responsabilità del reato è di chi l’ha commesso.
Anche lei ha dei figli. Tutto questo la fa riflettere sul suo ruolo di padre?
Certo, mi ricorda quanto sia importante essere sempre in contatto con i figli, anche quando non è facile. Molti bambini sentono che nessuno si interessa a loro. È importante che un bambino, un figlio, si senta desiderato, anche senza aver fatto nulla. (intervista Anouk Holthuizen; da reformiert.; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)
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