Secondo l’etico protestante Denis Müller il calcio è lo specchio della società e della natura umana.
“Ho passato i settant’anni – dice Denis Müller, professore onorario di etica teologica all’Università di Losanna e di Ginevra – ma ho sempre ancora, dentro di me, l’entusiasmo che mi ha trasmesso mio padre, col quale andavo a vedere le partite”. Appassionato di calcio, uno sport che “come la nostra vita, è caratterizzato da furbizie e inganni, violenza e drammi”, Müller ha dedicato a questa disciplina numerosi articoli e saggi e un libro, pubblicato dall’editrice Labor et Fides, “Le football, ses dieux et ses démons. Menaces et atouts d’un jeu déréglé”.
Denis Müller, lei parla del calcio come di un fenomeno quasi religioso, a motivo degli entusiasmi, del fanatismo e delle superstizioni che esso suscita. Ma non c’è qualcosa di artificioso in questo parallelo tra calcio e religione?
C’è una sorta di concorrenza, oggi, tra gli stadi e le chiese. Queste ultime sono tentate di guardare con invidia agli stadi, ritenuti sempre pieni di gente. Seguendo l’esempio delle chiese evangeliche libere, le chiese cristiane storiche – cattolica e riformata – hanno capito che essere presenti allo stadio permette anche a loro di beneficiare del prestigio di questi luoghi.
Ciò che mi sembra più interessante è però il fatto che le chiese hanno compreso che il calcio è un fenomeno che solleva questioni etiche e sociali – basti pensare alla prostituzione collegata ai grandi eventi calcistici, al mercato dei giocatori provenienti dai Paesi del Sud del mondo, o ancora alla violenza negli stadi. Le chiese hanno il dovere morale di accompagnare questo fenomeno umano, sulla scorta dell’esempio dato dai cappellani di Manchester o di Liverpool, i quali cento anni fa hanno contribuito attivamente alla nascita dei rispettivi club e alla loro crescita.
Kakà, portabandiera degli “Atleti di Cristo”
Quando io dico che “il calcio, come la nostra società e come ciascuno di noi, è caratterizzato da errori, da inganni, da ipocrisie, da violenza e drammi”, non suggerisco affatto che la società debba lasciar correre. Dico semplicemente che il calcio rivela una certa realtà sociale.
Questa ambivalenza dell’essere umano non è in contraddizione con la necessità di avere delle regole. Mi sono spesso soffermato, nelle mie riflessioni, sulla figura dell’arbitro e il suo ruolo – l’arbitro è colui che rappresenta il giudice -, e sulla necessità di rafforzare l’etica nel calcio. E potrei aggiungere che la perdita del rispetto nei confronti degli arbitri è legata al venir meno del rispetto, in generale, delle regole nella nostra società. Il laisser-faire, così come il controllo eccessivo che porta a moltiplicare le videocamere di sorveglianza, è espressione di una perdita di fiducia nella democrazia. La società deve sostenere gli arbitri, non deve permettere che i club assumano e licenzino allenatori secondo i loro capricci, e deve rifiutare l’assunzione di dirigenti che incitano a “uccidere l’avversario”.
Quali sono le forze demoniache che oggi minacciano il calcio?
È questa sorta di idolatria della prestazione sportiva che fa del calcio, oggi, quasi una religione e risveglia forze oscure che reclamano la morte dell’arbitro. Il centravanti deve segnare delle reti, il portiere non deve lasciarsi superare e non deve subire reti, l’allenatore deve trovare le strategie che permettano di vincere e di avere successo. Se questi risultati non vengono ottenuti, essi devono trovare delle valide giustificazioni. E in caso contrario vengono licenziati. In questo modo il calcio perde il suo carattere gratuito, il suo lato ludico, il carattere di una festa, e quei momenti miracolosi e magici che permettono la vittoria dei piccoli, la rivincita dei poveri, il ristabilimento della giustizia tra i forti e i deboli, quando si arriva a sfiorare qualcosa di sacro e si intuiscono una trascendenza e una grazia presenti nel gioco.
Conosco bene il potere del denaro, ma può capitare, alle volte, che un club privo di credenziali, che milita in terza divisione, riesca a conquistarsi un posto al sole e accedere alla gloria. Ho passato i settant’anni, ma ho sempre ancora, dentro di me, l’entusiasmo che mi ha trasmesso mio padre, col quale andavo a vedere le partite. E so di essere, con questo, in compagnia di milioni di persone.
Il calcio è senza dubbio in grado di rivelare qualche aspetto dell’essere umano, ma non è un palcoscenico sul quale siano mai in gioco questioni decisive. E sarebbe sbagliato credere che le chiese debbano imparare dal calcio delle lezioni su come avere successo. Non basta cambiare gli strumenti del culto per riempire le chiese. Ammetto tuttavia di parlare, a questo proposito, da protestante riformato: un cristiano evangelico membro di una chiesa libera potrebbe avere un’opinione diversa. Certo, si può invidiare l’aspetto festoso e gioioso del calcio, ma non bisogna dimenticare che non giochiamo nella stessa categoria e nemmeno nel medesimo campionato: il successo delle chiese non si misura in base alle reti segnate e alle entrate registrate al botteghino (intervista di Sylvie Fischer, ProtestInfo; trad.it. Paolo Tognina).
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