Da psicologo e psicoterapeuta mi è capitato, in questi giorni, di partecipare alla formazione professionale obbligatoria circa il ruolo della genitorialità. E ancora una volta gli accenti sono andati alla patologia della funzione genitoriale, sulle incapacità di esercitare quel processo educativo atto ad insegnare al figlio un adeguato comportamento. Ben venga quest’accenno, ma il rischio resta sempre quello di spersonalizzare l’uomo in un meccanicismo confusivo tra ruolo con l’essere genitore. Sempre di più nascono e crescono corsi sulla genitorialità, sulle competenze genitoriali come se la funzione fosse qualcosa di esterno un “oggetto” da costruire dentro di se. Ma spesso l’oggetto si può rompere e invece di capire il come mai si è rotto ci si adopera a contare i cocci. Immaginiamo di mettere sul tavolo inclinato il nostro bel vaso. Basta una minima spinta che il vaso cade e va in frantumi. E di volta in volta ne mettiamo uno diverso e la situazione non cambia. Inutile contare i cocci andiamo alla radice. Noi professionisti siamo abili e bravi a contare i cocci rotti della funzione genitoriale e così facciamo discorsi intono alle cose che sono funzionali allo scorrere del tempo, di cui spesso se ne ha bisogno, come lo evidenzia lo psichiatra, Eric Berne (Analisi transazionale e psicoterapia ed Astrolabio 1971), che ha definito bisogno di strutturazione del tempo. La premessa per una buona genitorialità è la consapevolezza del riconoscimento della propria esperienza naturale all’essere genitore. Ognuno ha esperienza diretta di come ha vissuto con i propri genitori e, questo è un dato vissuto, poi c’è un altro tipo di esperienza; quando si diventa genitore di un figlio, quando ci si prende cura di un altro o del prossimo (caregiver) che non può esimersi dagli aspetti etici e morali della vita quali i valori e la responsabilità.
Alle competenze della genitorialità non si può non affiancare l’analisi della responsabilità verso la vita, l’analisi dello spirito critico di ognuno, spesso in balia della cultura dominante, qualunquistica, senza fede e fiducia. In una cultura del genere anche le mura domestiche, che dovrebbero essere, “luogo di dialogo, di amore, di rispetto diventano pareti divisorie. “Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore … Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai… li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte… quando avrai mangiato e ti sarai saziato, guardati dal dimenticare il Signore, che ti ha fatto uscire dalla condizione servile” (Dt 6,4-12). Letto con spirito acuto e riflessione psicologica, il passo elenca i principi del dialogo che non sono relativi a specifici momenti. Molti genitori, ad esempio, si interessano del figlio solo per l’andamento scolastico tralasciando di interessarsi al cosa fa nel corso della giornata, con chi sta, in cosa crede. E’ una realtà che molti genitori sono presi dal lavoro, dalla carriera, dai propri bisogni e di conseguenza hanno poco tempo da dedicare ai figli, chiedendo loro, implicitamente, di crescere in fretta e in questo senso si crea quello che il grande psicoanalista Eric Fromm (psicoanalisi della società contemporanea, 1997 ed Mondadori) ha definito “competitività” con la conseguente reazione di un narcisismo che non contempla le ferite inflitte ad altri. E in questi casi la genitorialità disturbata affonda radici in un narcisismo di base infliggendo ferite altrui.
Pasquale Riccardi | Notiziecristiane.com
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