Alla fine a Gerusalemme i morti per la guerra dei metal detector sono arrivati. Puntuali. Da una parte e anche dall’altra: tre palestinesi uccisi nella Città Santa durante una giornata segnata dalle violenze; e poi – a tarda sera – anche tre coloni israeliani, due uomini e una donna, accoltellati in casa da un assalitore palestinese nell’insediamento di Halamish a nord di Gerusalemme. E in mezzo a questo bagno di sangue tante notizie di scontri da una parte all’altra della Cisgiordania e persino nel nord di Israele: da Hebron a Betlemme, da Gerico fino ad Akko. Tutti scanditi dallo stesso grido – «al Aqsa in pericolo» – che ha trasformato questo venerdì di luglio in qualcosa di molto simile all’inizio di un’intifada annunciata.
La bomba a orologeria è esplosa dopo che ben poco in questa settimana era stato fatto per disinnescarla. Eppure la possibilità si era profilata, giovedì, con la mediazione (timida) di Washington che aveva proposto una via di uscita dalla crisi: in cambio dello smantellamento dei metal detector fissi agli ingressi della Spianata, i giordani – che controllano il Waqf, l’autorità musulmana che governa le moschee di Gerusalemme – avevano accettato la presenza di dispositivi mobili che la polizia israeliana avrebbe utilizzato per controlli a discrezione. In pratica: i giordani avrebbero potuto dire di aver vinto la battaglia simbolica, ma nella sostanza Israele avrebbe comunque rafforzato i controlli. Anche lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, e i comandi dell’esercito – cioè quelli che quotidianamente si trovano a gestire il confronto con i palestinesi – spingevano in questa direzione, sostenendo che i metal detector non valevano il rischio di un’esplosione di violenza diffusa.
Solo che – anche in Israele, come in Giordania e in Palestina – la discussione sui metal detector fuori dalla Spianata delle Moschee/Monte del Tempio non è più ormai una questione legata alla sicurezza e alle modalità più efficaci per evitare il ripetersi di attentati come quello del 14 luglio. È diventata piuttosto una questione di sovranità: chi ha il potere di venirci a dire se possiamo installare oppure no questi strumenti? Così l’altra sera – nel vertice di governo convocato da Netanyahu di ritorno dal suo viaggio in Ungheria – l’ala destra che premeva per non perdere la faccia e mostrare chi comanda davvero ha avuto la meglio. I metal detector sono rimasti al loro posto, con il via libera alla polizia a decidere autonomamente le modalità di utilizzo. In più l’accesso alla Città Vecchia di Gerusalemme è stato vietato ai maschi sotto i 50 anni e l’intera città è stata blindata con 3000 agenti in tenuta antisommossa.
Chi sul versante palestinese da una settimana gridava allo «status quo» minacciato sulla Spianata non chiedeva di meglio. Nonostante i posti di blocco abbiano fermato fuori dalla città gli autobus con gli arabi-israeliani in arrivo dalla Galilea e da Jaffa, alla preghiera di mezzogiorno da Gerusalemme Est i musulmani sono comunque arrivati in migliaia. E come accade ormai da giorni hanno compiuto i loro riti nelle strade intorno alla Città Vecchia. Poi – quando alla fine della preghiera – la polizia israeliana è intervenuta per disperderli, sono cominciati gli scontri. Alla sera il bilancio parlava di sei morti accertati, di cui tre coloni, e oltre 300 feriti.
Tutto questo per dei metal detector? No. È evidente che si tratta solo di un simbolo. E a nulla vale ricordare che questi strumenti sono già installati agli accessi al Muro del Pianto e persino alla Mecca. C’è una differenza sostanziale in questo caso: a controllare le persone con questi strumenti non è la propria polizia, ma «quella degli altri»; quella che chi entra alla Spianata delle Moschee identifica come il volto di un nemico; la stessa che scorta al Monte del Tempio sempre più gruppi di ebrei nazionalisti che salgono proprio là dove oggi ci sono le moschee per dire che quel posto appartiene a loro. Anche ieri, tra l’altro, ci sono forti sospetti sulla morte del primo palestinese, colpito da un’arma da fuoco nel quartiere di Ras al Amud: gira in rete un filmato in cui si vede un colono israeliano sparare in quella zona.
La giornata che doveva essere la prova di forza, dunque, rischia di trasformarsi nell’inizio di una nuova partita. Perché il boicottaggio dei metal detector da parte dei musulmani andrà comunque avanti. Proprio l’incaponirsi del governo Netanyahu su questi strumenti è infatti riuscito a ottenere un risultato che nessun palestinese oggi avrebbe mai sperato: ha rimesso Gerusalemme almeno per qualche ora al centro di un mondo arabo che in questi ultimi anni aveva pensato a tutto tranne che alla Città Santa.
Cinquant’anni fa – quando Israele assunse il controllo della Spianata – fu Moshe Dayan a scegliere il compromesso, lasciando che fosse la Giordania (sconfitta) a mantenere attraverso il Waqf la giurisdizione sul recinto sacro. All’indomani della Guerra dei Sei giorni, nel momento del trionfo per lo Stato ebraico, il grande generale aveva capito una cosa fondamentale: il pericolo più grande per Israele è far affidamento solo su questo tipo di forza. Una lezione che oggi Netanyahu farebbe bene a meditare, prima di trascinare Israele in una nuova stagione di violenze.
di Giorgio Bernardelli | Lanuovabq.it
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