“Carne, ossa, muscoli e tendini – In difesa della vita nascente” (editore Gribaudi) è il libro che racconta battaglie, vittorie, sconfitte, gioie e dolori di un ginecologo obiettore e cristiano.
«La Corte di Cassazione ha cassato definitivamente la sentenza della Corte di Appello di Milano che aveva condannato il dottor Leandro Aletti perché, per salvare la vita di una bambina, aveva persuaso una madre a non abortire (…). La neonata sopravvisse per poco tempo, la diagnosi precedente non era errata, ma per l’intervento di Aletti la bambina non fu uccisa, e probabilmente egli, oltre la figlia, ha salvato anche la madre da un peso lancinante destinato a riemergere angosciosamente, presto o tardi, nella sua vita. (…) Il “caso Aletti” ha un significato che supera il fatto giudiziario. Per Leo (51 anni, otto figli, aiuto primario ginecologo obiettore di coscienza in trincea alla Clinica Mangiagalli di Milano, luogo di facili aborti tardivi e selettivi) le conseguenze giuridiche penali del suo agire erano e sono del tutto secondarie rispetto all’imperativo della sua coscienza. Per lui la vita di un bambino è un dono di Dio da proteggere a qualunque costo, anche quello di non conservare la propria situazione professionale e di compromettere il sobrio livello di sussistenza della sua famiglia».
Così si leggeva in un articolo apparso sul quotidiano Avvenire nell’aprile 1997. Oggi Leandro Aletti di anni ne ha 72, da cinque anni è in pensione per “collocamento a riposo definitivo e obbligatorio” contro la sua volontà, e dalle sue mani che da qualche anno non estraggono più neonati dal ventre delle madri è uscito un libro che si intitola Carne, ossa, muscoli e tendini – In difesa della vita nascente (editore Gribaudi). E che racconta battaglie, vittorie, sconfitte, gioie e dolori di un ginecologo obiettore e cristiano. Uno al quale si applicano perfettamente le parole recentemente pronunciate dal cardinale Angelo Scola: «La testimonianza non è solo dare il buon esempio. La testimonianza è una forma di rapporto con la realtà e di conoscenza della verità che implica che io paghi di persona». Aletti ha pagato con tre-quattro procedimenti giudiziari a carico, ostracismo e dispetti sul posto di lavoro, attacchi personali sui media e nelle assemblee sindacali; ma ha pagato sempre volentieri, ribattendo colpo su colpo, e a volte innescando rapporti umani e professionali con colleghi di lavoro lontanissimi per formazione e convinzioni personali che hanno avuto ripensamenti sulle proprie posizioni abortiste anche grazie agli incontri-scontri con quel burbero irruente. Estremi brandelli di scene alla Peppone e don Camillo, nelle quali la divaricazione antropologica fra obiettore e non obiettore in riferimento all’aborto non è ancora del tutto compiuta. In parole povere: alcuni medici non obiettori mostrano di avere ancora, come si diceva una volta, una coscienza, e quella alla fine parla e li spinge a cambiare.
Le 131 pagine appendici incluse di Carne, ossa, muscoli e tendini sono la sintesi delle battaglie in difesa della vita nascente condotte da Aletti, in buona compagnia, nei suoi 40 anni di attività professionale. Il viaggio sul filo della memoria si sofferma a elencare le bugie che gli abortisti hanno detto, scritto e propagandato per ottenere più facilmente la legalizzazione dell’aborto: dalle false dichiarazioni del caso Roe v. Wade che spinsero la Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1973 a imporre l’aborto legale in tutto il paese (ma Roe, al secolo Norma Leah McCorvey, che poi si convertì al cattolicesimo, non era rimasta incinta a causa di uno stupro come lei disse nel corso della causa) alle cifre sovrastimate del numero degli aborti clandestini in Italia e delle donne che sarebbero morte a causa della clandestinità (secondo Il Corriere della Sera a metà degli anni Settanta venivano effettuati fra gli 1,5 e i 3 milioni di aborti, che causavano 25 mila decessi di donne all’anno; nella realtà i decessi per qualsiasi causa di donne in età fertile in Italia erano a quel tempo di poco superiori ai 15 mila, e le donne morte per cause legate al parto o alla gravidanza 409, mentre per quanto riguarda il numero degli aborti sappiamo che nell’anno successivo all’approvazione della legge 194 ne vennero effettuati 187.752), al terrorismo psicologico con cui 42 donne di Seveso vennero convinte da alcuni medici della Mangiagalli di Milano ad abortire dopo l’incidente dell’Icmesa del 1976 che causò una nube tossica di diossina (nessuno dei 42 feti abortiti mostrò malformazioni, come non ne ebbero le altre centinaia di bambini che nacquero nei mesi successivi al disastro) alla campagna di stampa contro l’obiezione di coscienza fondata sulla falsa nozione che a causa di essa in Italia il servizio non è garantito (in realtà nella media «ogni medico non obiettore, considerando 44 settimane lavorative in un anno, effettua a livello nazionale 1,6 aborti a settimana»).
Il libro ricostruisce il clima politico e sociale in cui fu approvata la legge 194/78 che introdusse l’aborto legale in Italia, la vicenda di Seveso, il caso Mangiagalli che esplose nel gennaio 1989 quando Aletti e il dott. Luigi Frigerio denunciarono interruzioni di gravidanza dopo i 90 giorni effettuate presso la clinica che sembravano violare la stessa 194, e che si trascinò per un anno e mezzo con ispezioni, inchieste, processi e amnistie. Fra i protagonisti di quelle vicende spiccano il Movimento Popolare di Roberto Formigoni e Giancarlo Cesana, la Cisl, la Democrazia Cristiana e l’allora ministro della Sanità Carlo Donat-Cattin, schierati con le ragioni di Aletti e Frigerio; il Partito Radicale, la Cgil, il Pci e il Psi (con qualche eccezione) fieramente avversi e impegnati a liberalizzare sempre di più il ricorso all’aborto e a difendere i medici abortisti sotto accusa. Nel libro si ritrovano tipiche situazioni degli anni Settanta-Ottanta: Aletti e Frigerio appendono in ospedale manifesti firmati Comunione e Liberazione che denunciano falsi aborti terapeutici compiuti alla Mangiagalli, e i sindacalisti della Cgil passano a strapparli.
Ma la personalità di Aletti esce prepotente soprattutto dagli aneddoti. Assegnato alla guardia ostetrica della Mangiagalli, cerca ogni volta di dissuadere le donne che si presentano per l’interruzione della gravidanza, e in qualche caso riesce nell’intento, magari all’ultimo istante: «Ricordo ancora la gioia quando, mentre ero di guardia, mi chiamarono verso le 11: una donna, in sala operatoria per abortire, era scappata con ancora addosso il camicino. La vidi correre lungo via della Commenda e me ne rallegrai. Correva davvero bene». Alcune cliniche di proprietà di religiosi lo indicano come riferimento per le persone che vanno da loro a chiedere per l’aborto. «Mi arrivò la telefonata di una donna che aspettava un bambino: rideva perché era anziana. Le dissi che quel riso l’avevo già sentito, era di una donna che si chiamava Sara… le spiegai che se Sara avesse abortito il figlio Isacco, io sarei rimasto orfano di mio padre nella fede, Abramo. La donna smise di ridere e mi confessò di essere ebrea: “Questo figlio lo terrò, grazie!”. Ero così contento che condivisi subito la gioia con mia moglie, intenta a cucinare». Più volte impartisce il battesimo a neonati morenti, talvolta feti abortiti. «Un venerdì mattina, verso le 8.30, mi recai in sala parto e trovai un bambino di 22 settimane abbandonato in un bidoncino di plastica, che solitamente conteneva la placenta da usare per l’esame istologico. (…) Il piccolo nel bidoncino era ancora vivo ma non vitale, destinato a morire nel giro di poche ore. Abbandonato da tutti. Al reparto di neonatologia non lo volevano e non era nemmeno trasferibile in altro ospedale. Chiamai allora la caposala e mi feci portare dell’acqua. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo battezzai il bambino e lo chiamai come me, Leandro. Feci mettere in una culla al caldo la creaturina, che fu dissetata a intervalli con delle gocce d’acqua. Tornai al lavoro e alle 18 mi arrivò una telefonata: il piccolo Leandro era morto. Un Santo in più in Paradiso».
A chi si lamenta della denatalità in Italia e dell’invecchiamento della popolazione Aletti le canta chiare: «Da quando la 194 è entrata in vigore, gli aborti ufficiali in Italia sono stati quasi 6 milioni. Mentre scrivo, continua il dramma delle culle vuote. Sono più i morti che i nati e questo significa una sola cosa: senza un’inversione di tendenza gli italiani sono destinati a scomparire. (…) siamo arrivati a questa situazione proprio a causa delle leggi contro la famiglia e contro la vita approvate dal 1970 in poi». Ad Aletti la pensione sta stretta. Si capisce che si sente come un pugile al quale hanno tolto il ring, ma che ancora non si arrende: «I gettonisti (medici che vanno a effettuare le interruzioni di gravidanza a pagamento in strutture dove tutto il personale è obiettore, – ndr) possono continuare a lucrare sulla pelle dei bambini facendo aborti su chiamata, anche dopo essere andati in pensione. Io, che i bambini volevo continuare a farli nascere, sono invece stato accantonato. Ma, in qualche modo, cercherò di aiutarli comunque».
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