Un accordo pragmatico in una situazione che resta confusa. Un’intesa utile per sgomberare il campo – almeno per un po’ – da rischi di ulteriori escalation in Siria; ma ben sapendo che un accordo di pace vero resta molto lontano. Si può riassumere così il senso dell’intesa sul cessate il fuoco nella Siria Sud Occidentale raggiunta da Donald Trump e Vladimir Putin nel loro primo faccia a faccia, avvenuto l’altro giorno a margine del G20 di Amburgo.
Avevano entrambi bisogno di un risultato e l’hanno portato a casa sul terreno più facile: quella parte della Siria dove il prezzo di un’estensione del conflitto sarebbe molto alto per tutti; e dove – dunque – tutti sono maggiormente disposti a cedere qualcosa. Nella Siria Sud-Occidentale – l’area tra le alture del Golan e la provincia di Daraa, ai confini con Israele e la Giordania – nelle ultime settimane i rischi di una guerra a tutto campo erano saliti ben al di sopra dei livelli di guardia, con l’intreccio tra l’offensiva delle truppe di Damasco, appoggiate da Hezbollah, che puntano alla riconquista di tutto il Paese e i raid israeliani in risposta a razzi piovuti oltre confine (ma con l’intento evidente di lanciare soprattutto un segnale chiaro sulla contrarietà di Israele a qualsiasi presenza di milizie filo-iraniane ai propri confini). I più preoccupati per questa situazione erano ovviamente i giordani: con l’inasprirsi del conflitto anche su questo fronte si troverebbero, infatti, a dover far fronte a una nuova ondata di profughi in un Paese già da anni sotto pressione (secondo i dati dell’Unhcr sono attualmente 660.000 i rifugiati siriani registrati in una realtà come la Giordania, che già dai primi anni Duemila accoglie centinaia di migliaia di iracheni e i palestinesi ancora da prima).
Ecco allora l’intesa che è previsto entri in vigore oggi: l’aviazione e l’artiglieria di Assad fermeranno i bombardamenti sulle postazioni dei ribelli nella provincia di Daraa. Israele ottiene di fatto la garanzia di una “zona cuscinetto” al di là delle alture del Golan, dove le milizie di Hezbollah non dovranno mettere piede. A vigilare sull’attuazione del cessate il fuoco dovrebbero essere forze di polizia russe nelle zone controllate dai governativi e l’intelligence giordana (con il sostegno di Washington) nelle aree controlate dai ribelli. A Putin l’intesa fa comodo anche per sottolineare con Damasco e Teheran che è Mosca a dettare le regole di ingaggio; e in questa prospettiva la Russia non ha nessuna intenzione di giocarsi il canale diplomatico da tempo aperto con Israele. Washington, a sua volta, ottiene di rientrare in gioco nel negoziato, dopo essere rimasta tagliata fuori dagli accordi sulle de-escalation zone, che Mosca e Teheran hanno negoziato direttamente con Ankara.
Ci sono dunque le condizioni per cui questo cessate il fuoco almeno per un po’ tenga. Ma solo nella Siria Sud Occidentale. Perché più a nord i giochi sono molto più complicati e di intese tra russi e americani all’orizzonte non se ne vedono. La partita vera infatti oggi è quella di Raqqa, l’ultima roccaforte rimasta in mano all’Isis dove le milizie curde stanno avanzando velocemente con il massiccio appoggio americano. Ma è un’avanzata vista come il fumo negli occhi da tutti gli altri. Dalla Turchia, innanzi tutto, che tra la Siria e l’Iraq vede materializzarsi sempre più chiaramente l’incubo dello Stato curdo ai suoi confini. E poi da Damasco, che teme diventi l’inizio della spartizione del Paese, ma anche dall’Iran dalla Russia che vedrebbero rimesse in discussione le posizioni guadagnate negli ultimi due anni.
Potrebbe rivelarsi un accordo solo su una battaglia secondaria, dunque, questo cessate il fuoco; un alleggerimento per concentrarsi sul fronte più importante. Tanto più che nelle dichiarazioni che hanno accompagnato l’intesa, la distanza di posizioni tra i ministri degli Esteri Lavrov e Tillerson è apparsa forte. Passa da Raqqa, non da Daraa il futuro della Siria. Perché il dopo Isis è già cominciato e non è affatto detto che la pace sia più vicina di ieri.
di Giorgio Bernardelli | Lanuovabq.it
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