Adelaide, Australia: allo stadio entrano in campo le nazionali di Australia e Arabia Saudita per le qualificazioni del Mondiale. I giocatori si riscaldano, riti nazionali con gli inni. Poi inizia un minuto di silenzio in onore delle vittime di Londra: gli 8 morti (fra cui due donne australiane) e i 48 feriti dell’attentato terroristico del London Bridge del 3 giugno scorso. I giocatori australiani si raccolgono in silenzio, mani sulle spalle, in linea. I sauditi no. Fanno come se niente fosse. Uno o due giocatori restano fermi con le mani dietro la schiena, gli altri prendono posizione nel campo da gioco, continuano a fare stretching, scalciano, si preparano al calcio di inizio.
Non è un incidente, è un atto deliberato: lo si apprende nella mattinata del venerdì dalla Federazione Calcio australiana. I funzionari australiani avevano comunicato ai colleghi sauditi l’intenzione di rispettare un minuto di silenzio. Dall’altra parte della cornetta era arrivato un secco rifiuto: “non è in linea con le tradizioni saudite”. E subito son comparsi gli esegeti: ci sarebbe un conflitto in corso fra i dottori della legge più moderati (che ammettono i minuti di silenzio) e quelli più fondamentalisti (che lo ritengono un uso contrario alla religione). I sauditi sono wahhabiti, molto fondamentalisti, non ammettono il silenzio per celebrare le vittime. Dunque i giocatori devono continuare come se nulla fosse. Sarà vero? Pare di no. Non per questo attentato e per gli otto morti che ha provocato, ma alla dipartita del re Abdullah, i sauditi, allora in Germania, avevano rispettato il silenzio. Lo avevano chiesto loro stessi. Un anno dopo, per la morte dei giocatori brasiliani del Chapecoense, periti nell’incidente aereo del 28 novembre scorso, i membri della squadra saudita Al Ahli Saudi avevano rispettato anch’essi un minuto di silenzio, nello stadio di Doha, Qatar. In almeno due occasioni recenti, dunque, il silenzio non è stato vietato per motivi religiosi. Per le vittime di un attentato jihadista, invece, diventa, guarda caso, un atto impuro, irreligioso, che non può essere rispettato.
La Federazione di calcio saudita ha chiesto pubblicamente scusa per il significato del gesto. Ma non per quanto accaduto. Nel comunicato si legge infatti che “I giocatori non intendevano affatto mancare di rispetto alla memoria delle vittime, né causare dolore ai loro familiari, ai loro amici, o a chiunque fosse coinvolto in questa atrocità (…) La Federazione Saudita di calcio condanna tutti gli atti di terrorismo e di estremismo e porge le sue più sincere condoglianze alle famiglie delle vittime e al governo e al popolo del Regno Unito”. Una pezza sul buco appena fatto, ma non si legge da nessuna parte che i giocatori, i loro allenatori e i funzionari sauditi abbiano fatto male a non rispettare il minuto di silenzio. Un po’ come dire: “ci dispiace se vi siete offesi, non era nostra intenzione farlo, ma è sottointeso che noi ci comportiamo così”. Sbalordisce, piuttosto, la reazione della Fifa che non prevede alcuna sanzione per il comportamento della nazionale araba e non trova “alcuna ragione” per un’azione disciplinare. Fosse successo per una qualunque altra squadra nazionale, la reazione sarebbe stata analoga? E’ difficile anche solo pensarlo.
Il problema, a quanto pare, è che l’Arabia Saudita è intoccabile, si considera tale e gli altri non intendono disturbarla. Il rapporto fra sauditi e terrorismo è molto più che sospetto, considerando anche solo il fatto che quasi tutti i membri del commando dell’11 settembre venivano dal regno wahhabita. Riad ora accusa di connivenza con il terrorismo il Qatar. Ma la faida contro l’emirato del Golfo è più una lite per il controllo dell’estremismo islamico, nel mondo arabo e in Europa, che non una sincera lotta contro il terrorismo islamico, come abbiamo già avuto modo di spiegare su queste colonne. Episodi come quello dello stadio di Adelaide sono propaganda ad uso interno. I sauditi non vogliono farsi vedere troppo solidali con le vittime, forse perché sanno che i loro sudditi la prenderebbero male. Perché fra i loro sudditi, la stragrande maggioranza, stando ai sondaggi, ritiene che l’Isis sia un’autentica espressione dell’islam. Premessa di un sentimento positivo nei suoi confronti. E noi siamo pronti ad assecondare un comportamento simile nel nome della realpolitik?
di Stefano Magni | Lanuovabq.it
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