Perché poveri e perseguitati hanno una fede integrale

C’è la mamma che porta il bambino a scuola mettendo a repentaglio la vita del figlio, non perché non lo ami ma perché esiste qualcosa di più importante dell’esistenza terrena in cui i nostri cari consistono. Ci sono alluvionati in Perù che hanno perso tutto, ma che prima di chiedere aiuti materiali domandano di ricevere la Bibbia “perché senza Dio non possiamo affrontare questa tragedia”. Ci sono cinesi che ogni giorno sfidano il governo, perché sicuri che “la città ha bisogno della presenza della Chiesa”.

LA VERA POVERTÀ – Sono solo tre delle ultime testimonianze da parte dei cristiani che vivono in condizioni di persecuzione o povertà e che continuano a scuotere le coscienze dei credenti occidentali anche più fedeli alla Chiesa. Come a dire che non c’è appartenenza che preservi dagli effetti che ha su ogni persona, volente o nolente, lo stile di vita occidentale dell’opulenza autosufficiente. Mostrando che per comprendere più facilmente la dipendenza e il bisogno che abbiamo di Dio è necessario anche un certo modo di vivere che non lasci sprofondare nella sazietà momentanea e distratta. Che, si sa, lo spirito non è scindibile dal corpo. Non si tratta di demonizzare pauperisticamente la ricchezza o il benessere, ma di riconoscere un dato di fatto: l’uomo che non vede più il frutto del suo lavoro nascere dalla terra, che non conosce la povertà e la precarietà, che non ha alcun potere di fronte ai poteri che lo perseguitano è più facilitato nel riconoscimento della dipendenza totale da Dio. E, dunque, del bisogno che ha di qualcosa di vivo ma eterno per vivere sperando.

SAPERE PER CHI SI VIVE – E’ solo per questo che il vescovo pakistano di Lahore, Sebastian Saw, ha potuto commentare così la notizia dei rischi crescenti di attentati nelle scuole e nelle chiese cristiane del paese, dove comunque i genitori continuano a portare i loro figli: “Una mamma, in maniera molto innocente mi ha detto: “Vescovo, il bambino è un dono di Dio (…) è mia responsabilità portarlo in Chiesa e mostrargli la casa di Dio padre”. Il vescovo ha poi ricordato il 21enne che nel 2015 per fermare un kamikaze, anziché scappare, gli si gettò addosso morendo e salvando così la vita al vero obiettivo terrorista composto da circa 1500 fedeli radunati in chiesa: “Questo – ha aggiunto – è il risultato del nostro catechismo”. Dimostrando i frutti potenti di un’educazione veramente cristiana che ricorda all’uomo la verità: che siamo al mondo per conoscere, amare e servire Cristo, in una parola per attendere la Sua venuta e salvarci. E che la felicità sarà nel faccia a faccia con Lui, di cui qui si vive un solo l’anticipo. Perciò il vescovo ha potuto sottolineare che, nonostante i pericoli, le persecuzioni, le condanne a morte, i rapimenti e le conversioni forzate, “i giovani non devono avere paura di professare la loro fede”.

PRIMA LA BIBBIA POI LA CASA – Per lo stesso motivo, le famiglie peruviane che hanno subito l’alluvione dello scorso marzo “hanno detto che la Parola di Dio è essenziale a loro e alla continuità del programma catechetico della loro famiglia e di quella che hanno cominciato nel loro villaggio”, ha spiegato il vescovo José Antonio Eguren della diocesi di Pira, la cui baia è stata sommersa dalla acque. Qui circa 1800 sfollati, sistemati in “tende improvvisate e scomode, senza servizi di base, vivono insieme in condizioni di malattia e povertà” chiedendo “solo che non ci dimentichiamo della loro situazione”. Eguren ha concluso ricordando la grande dignità di “persone di profonda fede” che, “nonostante tutto ciò che hanno sofferto, non hanno perso la speranza e il desiderio di andare avanti, perché certi dell’aiuto e dell’amore di Dio”.

“AMARE LA VERITÀ PIÙ DI SE'” – Intanto, la Chiesa cinese clandestina (conta circa i due terzi dei fedeli), che si oppone al regime comunista, cresce continuamente, permettendo alle persone stanche dell’ateismo materialista di trovare il senso eterno della vita e, certa del suo compito di fronte a Dio, di vivere la fede dentro le persecuzioni. A dare queste spiegazioni all’incremento dei fedeli raccontando diverse storie di conversione è stato, una decina di giorni fa, il mensile The Atlantich. Uno delle testimoniante riportante dal giornale è quella di Wang Yi, convertito al cristianesimo 12 anni fa: “L’ufficiale della polizia locale viene ogni settimana a prendere la lista di coloro che frequentano la chiesa. Gli diamo le informazioni”, perché “non vogliamo essere bloccati dalla vecchia mentalità della chiesa sommersa. Non è salutare”. Così, anche se le chiese vengono chiuse, i fedeli le riaprono continuamente. E se vengono cacciati dalle città ci ritornano, “perché la gente non va nei villaggi per essere educata, ma va in città (…). Entrare in città è quello che fece Gesù andando a Gerusalemme. Entrare in città e diffondere il Vangelo”, perciò “se veniamo cacciati da Chengdu, siamo pronti a ritornare indietro, non per avere più opportunità o cultura (…) ma per il Vangelo. Dio ci vuole in città”.

SPERANZA NELL’INCARNAZIONE – Quello che accomuna tutti questi esempi non è solo il realismo di uomini abituati a dipendere e a non credersi padroni illudendosi di essere eterni, ma un’educazione realmente cristiana (“è frutto del nostro catechismo”, ha chiarito il vescovo pakistano) per cui si vive cercando Dio. Un Dio così concreto da averne bisogno più della vita, più della casa, più di un’esistenza tranquilla. Non a caso, la speranza in Cristo che porta letizia anche nelle situazioni più drammatiche emerge non solo dove ci sono povertà e persecuzioni, ma dove la Chiesa è radicata nel Vangelo e ha coscienza del suo compito.

di Benedetta Frigerio | Lanuovabq.it

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