Regulation Bill Atto autodistruttivo per Israele

Un altro colpo di mano di Israele sugli insediamenti. Che c’è mai di nuovo nel Regulation Bill, la legge approvata in maniera definitiva l’altra sera dalla Knessett, il parlamento israeliano? E, del resto, non è un dato di fatto che non c’è nessuno con cui negoziare in Palestina? Beh, questa volta le cose non stanno esattamente così. E vale la pena di andare a guardare un po’ dentro al contenuto del provvedimento che – con un blitz alimentato dal vento favorevole che soffia da Washington – i coloni sono riusciti a far passare.

Nella sbornia ideologica che aleggia sopra ogni discorso sul conflitto israelo-palestinese noi tendiamo a considerare gli insediamenti in Cisgiordania come tutti uguali; se invece li guardiamo dal punto di vista della legge israeliana c’è una distinzione importante. E non da oggi. È infatti da una celebre sentenza del 1979 che la Corte suprema israeliana stabilisce un principio elementare di giustizia: un insediamento non può sorgere su un terreno su cui un palestinese possa dimostrare diritti legittimi di proprietà. Criterio non poi particolarmente restrittivo: prima del 1967, infatti, il catasto giordano classificava gran parte del territorio come terreno demaniale; quindi darsi internamente almeno questa regola – anche al di là delle polemiche sulla legittimità delle colonie dal punto di vista del diritto internazionale – appariva più che ragionevole. Solo che con la crescita vertiginosa degli insediamenti, nei decenni successivi, la smania di nuove terre ha portato spesso e volentieri a non andare per il sottile: sono stati costruiti insediamenti anche là dove anche secondo la legge israeliana non avrebbero dovuto esserci. Un abusivismo tollerato da governi (non solo di destra) che hanno sempre blandito il voto dei coloni, minoranza compatta nell’elettorato israeliano.

La legge però è legge. E non può sorprendere che qualcuno – vistosi privato di un suo diritto – si appelli ai tribunali perché venga rispettato. Ed, evidentemente, i tribunali non possono che applicare la legge. Così già nel 1997 la Corte suprema israeliana emetteva un ordine di demolizione per l’insediamento abusivo di Amona, costruito due anni prima su terreni agricoli palestinesi come ampliamento del vicino insediamento (ufficialmente riconosciuto) di Ofra. Bene: ci sono voluti vent’anni e una sequela infinita di nuove ordinanze per arrivare, la scorsa settimana, alla chiusura definitiva della vicenda Amona, con la demolizione delle case. Al termine di uno psicodramma che nemmeno i permessi per la costruzione ex novo di un nuovo insediamento «legale» ad hoc (che sarebbe il primo dagli accordi di Oslo nel 1993) sono bastati a placare.

Ma Amona era solo uno degli insediamenti abusivi: sparse per la Cisgiordania ci sono altre 4mila case in questa stessa situazione. Così, per evitare altri sgomberi, HaBayit HaYehudi, il partito dei coloni che fa parte della coalizione di governo di Netanyahu ed è guidato dal ministro dell’istruzione Neftali Bennett, ha portato alla Knesset il Regulation Bill, la più classica delle sanatorie. Nell’euforia da «liberi tutti» con cui nella destra israeliana si guarda alla Washington di Donald Trump, l’ha portata avanti fino all’approvazione. Nonostante la stessa avvocatura dello Stato l’abbia dichiarata una legge indifendibile. E nonostante lo stesso Netanyahu avesse chiesto di aspettare almeno il suo incontro a Washington con Trump in programma per il 15 febbraio.

Bennett è comunque andato avanti, mostrando chi comanda davvero oggi a Gerusalemme. E il premier – in difficoltà per alcuni scandali giudiziari – non se l’è sentita di ritirare i voti del Likud, preferendo puntare sul fatto che comunque la Corte Suprema probabilmente gli toglierà le castagne dal fuoco affossando la legge per evidenti ragioni giuridiche. Cosa ancora più sconcertante, in queste ore anche Washington si è accodata: il Dipartimento di Stato pilatescamente ha dichiarato di aspettare a sua volta il verdetto dei tribunali, mentre tutto il resto della comunità internazionale ieri esprimeva condanna nei confronti di Israele.

Ora – anche mettendo per un attimo tra parentesi l’ingiustizia evidente di una sanatoria che va a inficiare un diritto di proprietà altrui – il Regulation Bill è un atto autodistruttivo per Israele. Perché perpetua l’illusione che ci possa essere un futuro per Israele senza alcun disegno su quale sia il posto per tre milioni di palestinesi in quella terra. Ripetere che «loro non vogliono trattare» non esime infatti dalle responsabilità sul futuro.

Oggi Bennett dice apertamente che il Regulation Bill è «l’inizio della rivoluzione» e che non accetteranno più limiti alle edificazioni «in Giudea e Samaria». Mentre Netanyahu – come fa da vent’anni – pensa solo a rimanere in sella. E Washington – così loquace in questi giorni nel cavalcare l’escalation con l’Iran – lascia fare, abdicando alle sue responsabilità nei confronti di Israele. Perché che senso ha staccare un pesante assegno (materiale e politico) per la sua protezione e poi rifiutarsi di far sentire la propria voce su una questione che ha tutte le carte in regola per esasperare le tensioni?

Si presentava come la grande novità anche per il Medio Oriente Donald Trump. In due settimane quello che abbiamo visto è: carta bianca a Israele, guerra di parole con l’Iran (con cui peraltro in Iraq gli Usa starebbero dalla stessa parte) e riallineamento alle posizioni dell’Arabia Saudita (con tanto di «richiesta di aiuto» per la safe zone per i profughi in Siria). È con queste premesse che dovrebbe condurre la guerra all’Isis?

di Giorgio Bernardellib | Lanuovabq.it

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