Cambiare sesso ai bimbi è un danno emotivo

img-_innerartfb-_bimbo-600Che cosa fareste se vostro figlio vi ripetesse in continuazione che lui è un gatto e che vuole essere trattato come tale? Si spera che per un po’ lo lascereste giocare senza prenderlo troppo sul serio. E, qualora la cosa si facesse ossessiva, vi rivolgereste prima a qualche altro genitore, parente, amico, insegnante, prete e poi magari a uno psicologo infantile. E’ verosimile credere che mediamente ogni genitore si comporterebbe più o meno così. Ma allora perché cresce il numero dei bambini assecondati quando comunicano a mamma e papà di essere quello che non sono, ossia persone del sesso opposto? E perché, in questo caso, se un adulto consultasse un esperto potrebbe facilmente sentirsi dire che “suo figlio è nato così”?

Le storie di genitori che raccontano vicende di questo tipo vengono immortalate sempre più frequentemente da media e rotocalchi, spesso confermati dal narcisismo di adulti che piazzano le foto dei loro maschietti vestiti da femmine, o viceversa, preferendo non scavare in problemi che potrebbero riguardare proprio loro. Emblematica di tale ideologia dell’autodeterminazione in versione gender è l’ultima vicenda analoga che riguarda il caso presentato all’autorità giudiziaria di un bambino inglese di sette anni poi allontanato dalla madre separata da tempo dal padre. A spiegare i contorni della vicenda e le motivazioni della sua scelta è stato la settimana scorsa il giudice londinese Justice Hayden, che ha raccontato che il piccolo “ha vissuto tutta la sua vita come una bambina” e che sua madre gli ha causato “significativi danni emotivi”, essendo “assolutamente convinta” che “si sentisse una femmina” e che come tale andasse trattato.

Hayden ha sottolineato che “segnali di preoccupazione” erano giunti da “un’ampia serie di agenzie multidisciplinari” non capendo come mai così tanti timori “sono stati messi da parte così sommariamente” dai servizi sociali. Anzi, proprio questi “erano finiti nella totale accettazione che [il bambino] dovesse essere trattato come una bambina”, per cui il giudice ha richiesto un riesame delle posizioni prese dagli operatori sociali. Hayden ha poi continuato raccontando di quando la madre gli comunicò che “lui si vestiva sempre come una bambina ed è trapelato che era stato registrato dal medico di base come una femmina”. E poi ha aggiunto di essere “totalmente impressionato” dal fatto che la donna “è convinta di lottare per i diritti di suo figlio di esprimersi come una bambina”. E sebbene lei abbia poi dichiarato che il figlio “ha mostrato disprezzo per il suo pene”, il giudice ha ribadito: “La madre ha causato un grosso danno emotivo al bambino nella sua attiva convinzione che dovesse essere una femmina”.

Persino il padre ha ammesso che era “scioccato quando per la prima volta l’ha visto comparire come una ragazza, sia nell’apparenza sia nei modi”. Eppure poco dopo essere stato affidato all’uomo, ha chiarito Hayden, il figlio “ha cominciato ad avere interesse per i Power Rangers per SpongeBob, per i super eroi e continua a scoprire nuovi interessi (…) è impressionante constatare che la maggioranza di questi sono prettamente maschili”. Perciò, ha concluso, “sono pienamente soddisfatto, sulla base dei rapporti e dei colloqui con il padre, il quale non ha fatto alcuna pressione su di lui per spingerlo verso gli interessi maschili”. Ma purtroppo oltre ai video in rete e alle testimonianze strappa lacrime di famiglie “aiutate” dai medici a capire che il figlio andava assecondato nella sua inversione, aumentano anche i numeri dei bambini sottoposti a “terapie” (spesso dosi di ormoni che ne segnano la crescita per sempre). Tutto ovviamente in vista dell’intervento chirurgico per il cambiamento di sesso, che poi alla fine non avverrà mai davvero, dato che il Dna rimarrà sempre quello di nascita.

In Inghilterra, i dati governativi dell’anno scorso parlano infatti di ben 1.013 minorenni sottoposti a terapie per il “disordine dell’identità di genere”. Anche in Italia tre anni fa si ipotizzò di cominciare a esplorare questo campo con il finanziamento statale. Mario Maggio, primario del reparto di Medicina della sessualità del Carreggi di Firenze, confessò al Corriere Fiorentino la richiesta alla Regione Toscana da parte dell’ospedale di fondi per le “terapie” ormonali. A ricredersi furono invece i pionieri del campo. Paul R. McHugh, psichiatria che diresse la prima clinica per il “cambiamento” di sesso, aperta negli anni Sessanta presso il Johns Hopkins, si dovette piegare di fronte all’evidenza da lui messa in luce dodici anni fa, in tempi non sospetti, su First Things: “Chi veniva trattato subiva cambiamenti psichici minimi. I problemi nelle relazioni, al lavoro, emozionali persistevano come prima. La speranza che sarebbero cambiati nelle loro difficoltà emotive per fiorire psicologicamente non venne confermata”.

Anche Charles Ihlenfeld, endocrinologo, dopo aver sottoposto a terapia ormonale circa 500 persone in sei anni, smise quando si accorse che “c’era troppa infelicità fra le persone operate (…). Troppi si suicidano. L’80% non si dovrebbe operare, ma anche nel restante 20% dei casi i problemi della vita non si risolvono”. Perché, come una sorta di tregua, l’intervento può arrecare al massimo “dieci o quindici anni di vita serena”.

Ihlenfeld concluse che il problema della mancata identificazione sessuale era psicologico e pertanto, pur essendo lui stesso attratto da persone dello stesso sesso, decise di non sottoporsi all’intervento chirurgico. D’accordo con lui anche McHugh, il quale aggiunse che “il 70/80 per cento dei bambini perde spontaneamente queste emozioni”.  Nello stesso senso vanno Lawrence Mayer e Paul Mchugh che a fine agosto hanno pubblicato “Sessualità e Gender: risultati dalla scienza biologica, psicologica, sociale”. Il ricercatore e  il professore di psichiatria, anch’essi entrambi della Johns Hopkins, hanno confermato che “solo una minoranza di bambini che esprimono un pensiero o un comportamento sessuale atipico continueranno così nell’adolescenza o nell’età adulta, motivo per cui è un errore enorme incoraggiare questi bambini a diventare transessuali”.

Resta il fatto che per un adulto è più facile provare a rimuovere i sintomi del malessere dei figli, o edulcorare la realtà di un disagio che potrebbe metterlo in discussione, piuttosto che lavorare sulle cause. Ma il rischio di genitori simili alla madre condannata dal giudice londinese e dei medici che avvallano le sue posizioni è proprio quello di attaccare al bambino che si sentisse un gatto, una coda che potrebbe non riuscire a togliersi mai. Aumentando soltanto il disagio.

di Benedetta Frigerio | Lanuovabq.it

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