In fondo era solo questione di tempo. In Belgio ieri si è assistito al primo caso di eutanasia su un minore e di fatto questo è un record che il Paese europeo potrà vantare nel mondo. A questo ha portato la legge approvata nel 2014 alla quale è stata dato un punto di non ritorno. La notizia è stata riportata dal quotidiano fiammingo Het Nieuwsblad che nell’articolo ha iniziao così l’articlo: “In silenzio e nella discrezione più assoluta per la prima volta nel nostro Paese un minorenne è morto per eutanasia”.
Nel testo non vengono riferiti né il nome né i dettagli sul bambino, neppure l’età, ma solo che è avvenuto nelle Fiandre. La dolce morte in Belgio consente di sopprimere la vita dei figli minorenni considerati malati terminali dopo averne fatto richiesta al medico curante, il quale deve sottoporre il caso e ricevere l’autorizzazione del ‘Dipartimento di controllo federale e valutazione dell’eutanasia’. La legge specifica che anche il minore deve esprimere una forma di consenso. Ma in fondo si tratta di una morte annunciata perché l’approvazione della legge aveva bisogno solo di un evento scatenante, che è avvenuto. Ma ci sono Paesi dove il dibattitto sull’eutanasia per i minori è in corso e si serve di storie che facciano presa secondo la ben nota tecnica radicale del caso limite per sensibilizzare l’opinione pubblica. Uno di questi Paesi sono gli Stati Uniti.
A soli 14 anni ha deciso di aver superato la soglia di sopportazione della malattia e, con l’appoggio materno, ha annunciato la volontà di lasciarsi morire. È così che la teenager americana Jerika Bolen, cresciuta con una madre single, è diventata in poco tempo il nuovo volto del movimento pro eutanasia degli Stati Uniti. Nata con l’atrofia muscolare spinale, una patologia neurodegenerativa che colpisce le cellule nervose del midollo spinale che governano i muscoli, è ora costretta a dover respirare dodici ore al giorno con il ventilatore. La ragazzina si è quindi convinta che il livello di fatica aveva raggiunto un grado troppo elevato. E, certa che «sarò di nuovo libera», che «camminerò» stando «vicino a Dio», ha messo da parte le lacrime e la tristezza che l’hanno assalita quando per la prima volta ha pensato di lasciarsi morire rifiutando il respiratore.
«Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento», ha dichiarato la madre. Così a luglio, per festeggiare la dipartita di Jerika, lei e il team medico hanno deciso di mettere in scena la replica del ballo scolastico di fine anno, attirando migliaia di persone che hanno partecipato al “party” d’addio. Non solo, perché da tutti gli Stati Uniti sono giunti altrettanti biglietti di auguri, persino da numerosi personaggi pubblici che non hanno mancato l’occasione per prestare la propria firma e perorare la causa. Invece che offrirle supporto nel vivere tutta la vita che gli è data, o almeno piangere per la tragedia di una figlia che si ribella alla fatica dell’esistenza, tutti i presenti compresa sua madre hanno edulcorato così, esattamente come può fare una teenager, la realtà della morte. Nonostante la decisione di sottrarsi dalle cure Jerika è ancora viva anche se non sono noti i dettagli delle sue condizioni.
Decisa a far capire alla ragazzina che la fuga nella morte non può essere una liberazione dalla sofferenza (la quale è innanzitutto richiamo al bisogno di senso e di amore incondizionato) è Carrie Ann Lucas, direttore esecutivo dell’Associazione americana per i diritti dei genitori di disabili. Lucas ha ora chiesto l’intervento delle autorità per indagare sui particolari del caso, anche perché “un bambino, infatti, non è in grado di prendere decisioni di questo genere e per la legge lei è un bambino”. Insieme a Lucas altre quattro associazioni hanno domandato al dipartimento dell’Infanzia e della Famiglia del Wisconsin di prendere in esame la vicenda, dato che “la malattia di Jerika è progressiva ma non è terminale”. Le associazioni in difesa dei disabili hanno anche fatto notare le ripercussioni dannose che una scelta simile, soprattutto se pubblicizzata, ha sulla mentalità generale. Diane Coleman, direttore esecutivo dell’organizzazione Not Dead Yet, ha spiegato che invocare la morte per malattia incrementa il pensiero per cui «le persone disabili vanno rottamate», facendole sentire di troppo.
Eppure, a chiedere alla ragazzina di ripensarci, sono stati anche alcuni adulti nelle sue condizioni o genitori di bambini disabili, convinti a dare loro tutto l’amore necessario per sostenerli ad affrontare la malattia. E, perciò, convinti che la vita valga la pena di essere vissuta sempre e in ogni caso, fino alla fine. Uno sguardo che a un mondo che rifiuta il dolore può persino apparire crudele rispetto a quello “compassionevole” della madre di Jerika che ai microfoni della Wluk-Tv ha dichiarato: «Jerika ti amo così tanto che non ti farò soffrire». A meno che non si cominci a presupporre che la vita ha un destino buono e che percorrendola tutta si cresca fino al compimento della propria persona. Solo in questo caso non risparmiare il dolore e la fatica a un figlio non solo acquista senso, ma diventa necessario. E solo in questa prospettiva si può smettere di manipolare la vita dei propri cari. Al contrario si uccide l’altro, anche senza arrivare all’eutanasia fisica. Prima che di cure, è di questo sguardo verso l’aldilà, ma radicato nell’aldiquà, che Jerika, come ciascuno uomo, ha bisogno per vivere con dignità.
di Benedetta Frigerio | Lanuovabq.it
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