Un’autobomba è esplosa in un centro commerciale di Baghdad, quartiere di Karrada. Sabato sera, era gremito di persone, soprattutto musulmani sciiti, che facevano compere alla fine di una giornata di digiuno del mese sacro di Ramadan. Il bilancio delle vittime, ancora provvisorio, è di 165 morti e 200 feriti. Fra gli uccisi, almeno 15 sono bambini. I terroristi sono andati a colpo sicuro, dato l’affollamento dell’area. L’attentato è il più sanguinoso fra quelli compiuti in Iraq dall’inizio dell’anno. L’azione è stata prontamente rivendicata dall’Isis. che più tardi nello stesso giorno ha fatto detonare una seconda autobomba in un altro quartiere sciita di Baghdad, nel Nord della capitale irachena.
L’attacco dell’Isis nel mercato di Karrada è considerato come una vendetta per la sconfitta militare subita a Falluja. La città è stata riconquistata dal governo iracheno, dominato da partiti sciiti e sorretto da milizie addestrate in Iran. E la lotta contro l’islam “eretico” sciita è la caratteristica, praticamente il marchio di fabbrica, dello Stato Islamico, che in Iraq si era scisso da Al Qaeda, ai tempi di Al Zarqawi, proprio perché dava la priorità ai bersagli sciiti rispetto a quelli governativi e occidentali. Non è una novità che ad essere massacrati siano musulmani sciiti, dunque. E non è una novità neppure che il sangue scorra nel mese sacro del Ramadan, in cui i gruppi di jihadisti colpiscono i loro nemici di fede convinti di compiere un atto di fede L’attentato a Baghdad, tuttavia, rischia di passare in secondo piano, perché si sovrappone allo strascico doloroso (soprattutto in Italia) del massacro di Dacca, in Bangladesh, sempre rivendicato dall’Isis, in Turchia si sovrappone al dolore per l’attentato dell’Isis contro l’aeroporto internazionale Ataturk di Istanbul; in America al dolore per la strage di Orlando, compiuta da un “lupo solitario” che aveva prestato giuramento all’Isis e che è stato riconosciuto dal gruppo come un “proprio soldato”. Il gruppo che si richiama al Califfato, insomma, sta colpendo ovunque e con una cadenza di più di un attentato a settimana. Ma non è il solo.
L’Isis fa più notizia, perché attacca soprattutto bersagli di rilevanza internazionale. Però, nelle pieghe della cronaca estera, troviamo uno stillicidio di attentati e fatti di sangue commessi da altri gruppi terroristici jihadisti. Il 2 luglio, lo stesso giorno dell’eccidio di Baghdad, a Baidoa, Somalia, due bambine venivano uccise da un colpo di mortaio sparato dagli Shebaab. Il giorno stesso, a Jalalabad, Afghanistan, 2 persone sono state uccise e 17 ferite da un attentatore suicida. Il giorno prima (lo stesso del massacro di Dacca), a Shawali Kot, sempre in Afghanistan, una famiglia intera di sette persone è stata trucidata dai talebani. Sempre il 1 luglio un’altra famiglia, israeliana questa volta, è stata distrutta nei pressi di Hebron da uno jihadista palestinese: il padre di famiglia, il rabbino Michael Mark è morto, la moglie e le due figlie sono gravemente ferite. Il giorno prima, nella stessa area, a Kiryat Arba, un altro jihadista ha pugnalato a morte una ragazzina ebrea di 13 anni che dormiva nel suo letto.
Nel solo mese di giugno, gruppi jihadisti hanno compiuto attacchi e attentati in 32 paesi, dal Pakistan al Bangladesh, dall’Egitto alla Tailandia, da Israele alla Siria e all’Iraq, Bahrein, Yemen, Libano, Kuwait, India, Camerun, Nigeria, Niger, Repubblica Centrafricana… Sono fatti di sangue che fanno meno notizia, o non arrivano neppure sul desk delle nostre redazioni, perché riguardano paesi e culture lontani da noi, sono considerati parte di conflitti cronici, non provocano vittime europee o occidentali in generale. In ogni caso, sono notizie frammentate: ciò che avviene in Israele va sotto la voce “conflitto mediorientale”, gli attentati dell’Isis sono un capitolo a parte, quel che avviene in Iraq e Siria è un altro capitolo ancora, quel che avviene in Afghanistan è parte del lungo conflitto afgano. Di quel che avviene in Africa, poi, si è sempre parlato poco. Ciò che veramente non si coglie è la dimensione globale di gruppi di terroristi che agiscono tutti per lo stesso scopo: il jihad islamico. Perché si tratta di movimenti armati che, al di là delle caratteristiche e degli obiettivi locali, hanno in comune la stessa ideologia. E’ un problema di metodologia che pochi vogliono affrontare, perché chiunque temerebbe di essere accusato di scarsa scientificità mettendo in comune Boko Haram (in Nigeria), al Shabaab in Somalia, i talebani in Afghanistan, l’Isis in Libia, Iraq e Siria, Hamas a Gaza, Al Qaeda in tutto il mondo islamico. Eppure c’è un filo rosso che lega i gruppi armati che uccidono nel nome di Allah.
All’indomani della carneficina di Parigi, nel novembre del 2015, il settimanale Economist (tendenzialmente politically correct e non passibile di accusa di islamofobia) ha accettato di considerare il fenomeno nel suo complesso e ha pubblicato una prima statistica, tratta dall’Institute for Economics and Peace e ne aveva tratto una prima classifica sui gruppi più letali. Al primo posto c’è l’Isis, che ha provocato 20.000 morti in guerra e 6.000 in attentati. Al secondo ci sono i Talebani con 19.000 morti, di cui 15.000 in guerra e 4.000 in attentati. Al terzo c’è Boko Haram, con 6.600 morti solo per terrorismo, subito seguito da Al Shabaab in Somalia, con circa 4.000 morti al suo attivo. Ciò che sbalordisce è che i dati si riferiscono a un solo anno: il 2014. Il blogThe Religion of Peace è molto spesso ignorato come fonte, perché è scritto in toni estremamente ironici e polemici e per questo viene accusato di “islamofobia”. Tuttavia è praticamente l’unico che ha mandato online una statistica completa, anno per anno, basata su fonti pubbliche e, per ammissione degli stessi redattori, stimata per difetto: esclude una serie di fatti di sangue non esclusivamente legati all’ideologia jihadista, i morti in battaglia e le vittime decedute nei giorni successivi a un attentato. Tenendo conto di questi limiti, la lista delle vittime è ugualmente impressionante: quasi 11.000 morti dall’inizio del 2016 ad oggi, 27.628 nel 2015, 32.863 nel 2014, 16.775 nel 2013, 11.546 nel 2011, 9.233 nel 2010. Dunque ci troviamo di fronte a un’ecatombe con 110mila morti negli ultimi cinque anni. E l’intensità degli ultimi tre anni indica che siamo in piena escalation. Una fonte molto più autorevole e ascoltata, il Global Terrorism Database è più complicato da consultare, divide il terrorismo in ideologie, gruppi, paesi, cronologia. I dati aggregati confermano, comunque, quanto esposto dal blog The Religion of Peace e dalla classifica dell’Economist. La mappa del terrorismo globale tracciata dal GTD permette di capire, con un colpo d’occhio, dove si concentri il terrore. Con l’unica eccezione dell’Ucraina, è concentrato soprattutto nei “confini insanguinati del mondo islamico”: Afghanistan, Yemen, Iraq, Medio Oriente, ma anche nel Sudest asiatico, nelle nazioni a maggioranza musulmana.
Non potrà mai esservi una statistica completa, esauriente e da fonte autorevole sul terrorismo islamico, comunque, sinché i due termini “terrorismo” e “islamico” non potranno essere legittimamente accostati. I manuali della polizia statunitensi, sotto l’amministrazione Obama, sono stati emendati per eliminare ogni possibile accostamento del fenomeno terrorista alla parola “islam”. I capi di Stato e di governo europei e americani preferiscono usare il termine Daesh per indicare l’Isis, poiché Isis contiene “Islamic” ed è troppo riconducibile alla parola “islam” alle orecchie di un pubblico internazionale. Chi proprio deve parlare di Stato Islamico, lo fa precedere da “sedicente”, per indicarne una presunta natura “non musulmana”. Questo è il modo occidentale di combattere la guerra dell’informazione. Evidentemente, visto il crescente numero di morti, è una strategia che non porta ai risultati sperati. Serve invece uno studio completo sul fenomeno. Perché esiste il terrorismo islamico ed è globale. Se non lo si vuole conoscere e se si ignorano le sue reali dimensioni, non solo non potremmo sconfiggerlo, ma neppure potremmo capire come combatterlo.
di Stefano Magni | Lanuovabq.it
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