Il lavoro di volontari a favore dei rifugiati. Intervista a Lara Robbiani Tognina
Da circa un anno e mezzo Lara Robbiani Tognina ha avviato un’attività a favore dei richiedenti asilo: raccolta e distribuzione di abiti, iniziata su piccole quantità, ma presto cresciuta in modo esponenziale. Attualmente una trentina di persone collabora in modo volontario a questo progetto. I vestiti vengono raccolti, smistati, inscatolati e quindi consegnati alle persone ospiti nei vari centri in Ticino.
Come è nato questo progetto?
Tutto è iniziato grazie all’esperienza della mia figlia maggiore, Febe, che finito il liceo ha svolto un anno sabatico: prima ha lavorato in un centro per richiedenti asilo nel Giura e poi ha lavorato a Scicli, in Sicilia, nella Casa delle culture, dove c’è l’accoglienza di minori non accompagnati. Una volta tanto sono i figli che coinvolgono i genitori e non viceversa!
Ho iniziato a informarmi sulla situazione dei profughi e richiedenti asilo; tramite Facebook ho conosciuto persone come Lisa Bosia, che lavora per Soccorso Operaio Svizzero e Nawal, una donna che si occupa di accoglienza e mediazione culturale. Ma è stato proprio seguendo questa esperienza di mia figlia che ho capito che volevo fare qualcosa di concreto. Sentivo una sensazione di impotenza. Poi un giorno una vicina mi diede dei vestitini e io ho chiesto proprio a Lisa Bosia: “Che cosa posso farne? Possono servirti?”. Lei mi ha indicato una famiglia di richiedenti asilo nel Malcantone e io sono andata a portare loro quei vestiti. Da lì è iniziato tutto.
Attualmente vi muovete sul Ticino, ma nei primi mesi avete fatto molti viaggi a Milano. Come sono andate le cose?
All’inizio la raccolta di abiti era a Casa Astra, una casa di prima accoglienza a Mendrisio per persone senza tetto che non hanno più diritto all’assistenza. Lo stavano ristrutturando e allora abbiamo pensato: raccogliamo in previsione degli ospiti che arriveranno in casa. Ma in quei mesi ci siamo resi conto che si poteva fare molto andando a Milano: si parla sempre della Sicilia e di Lampedusa, ma in quella fase quando i profughi arrivavano venivano subito fatti proseguire e si fermavano a Milano in attesa dei treni per la Germania e per il nord. E pian pianino ci sono arrivate richieste di amiche di Lisa Bosia, volontarie, che avevano urgenza di giacconi e scarpe pesanti perché i siriani arrivavano vestiti d’estate e non sapevano come ripararsi dal freddo. E così chiunque andava per qualche motivo a Milano passava dalla stazione a portare due o tre giacche. I profughi dormivano in stazione in attesa del treno per proseguire, altri purtroppo in attesa di passatori, che approfittavano di quella situazione. La stazione aveva messo a disposizione questo spazio, un mezzanino, ma esclusivamente per i siriani. Gli eritrei dovevano essere accolti a Porta Venezia perché quello è già un quartiere dove ci sono altri eritrei.
Così il vostro gruppo di volontari è andato crescendo. Ma in quella fase, quando vi muovevate su Milano, vi eravate legati ad altri gruppi o associazioni?
Sì, collaboravamo con Cambio passo, un’associazione composta soprattutto da ragazzi universitari che tutte le sere alle 18 fornivano un pasto caldo e un cambio di vestiti. La prima volta a Porta Venezia sono scesa con mio figlio Filippo, 13 anni. Arrivati a Porta Venezia abbiamo consegnato i nostri abiti e guardato come funziona la distribuzione. I ragazzi si mettevano in fila a seconda di quello di cui avevano bisogno: magliette, pantaloni ecc.
Un ragazzo giovanissimo prende un sacco a pelo e mi accorgo che lo guarda come se vedesse un tesoro; si gira verso i compagni e mi sembra che dica: “Stanotte posso dormire”. Quegli occhi per tutta la settimana non sono riuscita a cancellarli dalla mia mente e mi sono detta: io devo proseguire, non posso fermarmi.
Abbiamo fatto diversi viaggi verso Milano. Raccoglievamo tanta roba, ordinata, smistata e poi la portavamo alla stazione.
L’idea principale era comunque di agganciarsi ad associazioni che sapevano già come funzionavano le cose, anche a livello politico e legale.
Come vi siete organizzati dal punto di vista pratico? Avrete bisogno di locali dove appoggiare i vestiti da smistare…
All’inizio usavamo Casa Astra, che però durante l’estate è stata chiusa. Ma la gente ha continuato a passarmi vestiti e così abbiamo continuato questa attività e il deposito è diventato… casa mia! In seguito ho chiesto al comune di Manno, dove sono anche consigliera comunale, se mi davano un locale per depositare, ma il comune gentilmente mi ha offerto i locali della protezione civile, per cui ora possiamo raccogliere molto di più.
In questa fase ci stiamo concentrando sul Ticino, ma tutto è cominciato un po’ per caso. Abbiamo letto sui giornali una notizia: a Bosco Gurin sono arrivate 17 donne richiedenti asilo e hanno bisogno di vestiti caldi. Così siamo partite. Ho riempito l’auto e sono stata a Bosco Gurin. Il lavoro in Ticino è iniziato otto mesi fa.
Il Cantone si appoggia su strutture private: pensioni che hanno posti o appartamenti privati vengono messi a disposizione del Cantone. La Confederazione paga 70 franchi per vitto e alloggio per notte per ogni richiedente. Oltre a Bosco Gurin, poi abbiamo saputo che a Peccia erano alloggiati 44 giovani e gradualmente siamo riusciti a visitare almeno una volta ognuno dei 19 centri che sono attivi.
Questo lavoro in Ticino come si sta svolgendo, anche in relazione alle istituzioni cantonali?
Fin dalla prima visita io ho sempre segnalato la nostra attività all’ufficio per l’accoglienza di cui è responsabile la signora Carmela Fiorini. All’inizio noi portavamo un po’ di tutto, vestiti di ogni tipo per donne e uomini. Poi abbiamo iniziato, per così dire, a personalizzare, nel senso che portiamo quello che loro ci chiedono. Loro ormai sanno che noi comunque regolarmente ripassiamo.
Ma quali sono le esigenze di queste persone? Quale è la loro situazione nei centri?
A poco a poco, frequentando questi centri, ci siamo resi conto che oltre ai bisogni primari dell’abbigliamento queste persone vanno aiutate anche in altro modo. Abbiamo iniziato con piccole cose. Ad esempio, abbiamo visto che queste persone ricevono solo 3 franchi al giorno. A Bosco Gurin c’è solo un piccolo negozietto che apre poche ore la settimana apre e comunque con 3 franchi non ti puoi comprare quelle piccole cose (anche solo uno shampoo o un balsamo) che secondo me non sono lusso ma sono anche necessarie.
Allora abbiamo fatto un po’ di passaparola e tante amiche quando vanno a fare la spesa comprano il doppio e mi passano qualcosa. Abbiamo iniziato a portare del trucco, degli smalti, piccole cose per far passare anche la giornata e ridare a queste donne un po’ di gioia.
Naturalmente è anche necessario che queste persone inizino a integrarsi, anche se non è detto che resteranno in Svizzera.
Sì e proprio per questo abbiamo iniziato a lavorare anche su piccole azioni che possano favorire la loro integrazione. Non può mancare, se si parla di integrazione, l’apprendimento della lingua italiana. E sia a Bosco Gurin che a Peccia si sono creati piccoli grupi che si dedicano proprio a questo.
Loro ne avranno diritto nel momento in cui avranno il permesso come richiedenti asilo, però il tempo di attesa può essere veramente lungo, anche due anni di attesa e queste persone cosa dovrebbero fare? Inoltre si tratta anche di dare uno scopo a queste persone, che altrimenti rischiano davvero di restare “parcheggiate” per lunghissimi mesi senza fare nulla di produttivo. E a volte cadono in depressione. Il corso di lingua è quindi anche un modo per strutturare la settimana di queste persone, altrimenti il nulla è tremendo.
Sembra davvero un lavoro che si allarga gradualmente, mentre si capisce, a poco a poco, di che cosa c’è bisogno. Riterrete necessario, prossimamente, darvi una struttura più istituzionale?
Il volontariato è importantissimo perché è anche un modo per incontrare queste persone che arrivano come profughi, vederle come persone prima di tutto e favorire la loro integrazione. Però è chiaro che questo lavoro cresce e crescerà ancora. Io ormai coordino un gruppo di circa trenta persone che collaborano regolarmente e ricevo almeno 2-3 telefonate al giorno di persone che vogliono lasciarci degli abiti. C’è poi tutto il lavoro su Facebook che ci aiuta nella comunicazione. Penso che prima o poi sarà necessario avere un piccolo nucleo di persone che non siano semplicemente volontari, ma che garantiscano continuità e il rapporto con le istituzioni. (intervista di Luisa Nitti).
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