Iniziativa di una nota azienda internazionale di abbigliamento che, dopo una linea di vestiario unisex, ha lanciato sul mercato una linea di abbigliamento ungendered.
Nel 1837 veniva pubblicata la fiaba per bambini di Hans Christian Andersen dal titolo “I vestiti nuovi dell’imperatore” il cui intreccio è sostanzialmente a tutti noto, ma che può essere così sintetizzato: c’è un imperatore vanitoso e pieno di sé che vuole sempre apparire ben vestito, ma senza mai essere soddisfatto dai sarti del suo reame; un bel giorno due imbroglioni arrivati nella capitale spargono la voce di essere i migliori tessitori mai esistiti e di saper e poter confezionare abiti con un tessuto unico, leggero e sottile che è invisibile soltanto per gli stolti e per gli indegni; i cortigiani riferiscono al sovrano tale eccezionale scoperta; l’imperatore paga profumatamente i due imbroglioni che gli confezionano un abito che non c’è; tuttavia, per non apparire stolto egli stesso, si dice ben soddisfatto dell’abito tanto da sfilare per le strade della città tra l’ammirazione dei sudditi che ammettono anch’essi di vedere la bellezza e l’eleganza del vestito dell’imperatore, fin quando un bambino, l’unico tra la folla a non praticare l’ipocrisia, a non nutrire timore reverenziale, ad andare contro-corrente, grida: «Il re è nudo!».
Tanto accade similmente oggi con l’ideologia gender che da taluni imbroglioni viene propinata pur all’un tempo sostenendo che essa non esiste, almeno fin quando alcuni non allineati denunciano, invece, che il re è nudo, cioè che, contrariamente a ciò che si afferma, non solo l’ideologia gender esiste palesemente, ma che perfino il tessuto di cui è composta ricopre ogni aspetto della realtà.
Sebbene una agguerrita minoranza ordisca continuamente stratagemmi sempre nuovi per diffondere la falsità della presunta inesistenza dell’ideologia gender, la trama della menzogna non riesce a coprire la realtà nella sua interezza che rimane, malgrado tutto, completamente nuda, proprio come il re della fiaba di Andersen.
Prove innumerevoli ve ne sono in tal senso e tutte nella direzione per cui coloro che negano l’esistenza dell’ideologia gender hanno preferito dismettere i panni della verità per vestire gli stracci dell’ideologia, senza riuscire a dimostrare ciò che negano e negando così ciò che vorrebbero dimostrare, cioè appunto che l’ideologia gender non esiste.
L’ultima occasione in ordine di tempo è quella offerta dall’iniziativa di una nota azienda internazionale di abbigliamento che, dopo una linea di vestiario unisex, ha da poco lanciato sul mercato una linea di abbigliamento ungendered.
Il passaggio dal concetto di “unisex” a quello di “ungendered” non è di poco conto.
Se già l’idea dell’unisex è in sostanza non poco problematica poiché frutto dell’imposizione di un ingenuo egualitarismo uniformante che pensa di eliminare ogni differenza costitutiva tra sesso maschile e sesso femminile (occorre ricordare a questo punto che i due sessi sono ontologicamente pari, ma non fenomenologicamente uguali – a discapito di ogni utopistico pensiero egualitarista), ma pur sempre rimanendo ancorato ad una dimensione identitaria ben individuata, cioè appunto quella della dicotomia tra maschile e femminile, l’idea dell’ungendered è ancor più problematica poiché scardina la dimensione identitaria dell’essere umano – sulla scorta della migliore ortodossia dell’ideologia gender oggi tanto diffusa – per centrifugarla in una identità non tanto policentrica, quanto piuttosto a-centrica, come si evince, appunto, dallo stesso termine “ungendered”, che indica infatti non solo la privazione di ogni identificazione, ma anche e soprattutto di ogni identificabilità del “genere” di appartenenza.
Insomma, l’“ungendered” è il livello più avanzato di “sperimentazione” dell’ideologia gender di cui non solo conferma l’esistenza in modo inequivocabile, ma di cui traduce perfino l’essenza, cioè essere la manifestazione più evidente e matura del nichilismo contemporaneo che vuole spogliare l’essere umano della sua naturale identità sessuata per rivestirlo con i cenci grotteschi di una artificiale identità ideologica.
Il paradosso però emerge in tutta la sua evidenza poiché si tratta di costruire un modello identitario che proprio l’identità respinge attraverso l’utopia della interscambiabilità di maschile e femminile.
Del resto, si tratta di un modello culturale che negando la natura nega anche la stessa cultura, o meglio, si rivela per il suo essere un derivato della cultura della negazione, cioè appunto del nichilismo.
Risaltano così maggiormente le parole di Gomez Davila per il quale «nel vestirsi, non nello spogliarsi, si rivela da sempre la cultura»: stando all’iniziativa della suddetta multinazionale del vestiario, si deve ammettere che la cultura attuale che subordina il vestirsi alle finalità dell’ideologia gender, cioè del nichilismo che ha indossato l’ennesimo costume da camouflage, è per l’appunto la cultura più anti-identitaria di tutti i tempi, cioè, in definitiva, la cultura più contraria all’essenza dell’essere umano, ovvero la cultura più antiumana della storia.
Grave o meno che sia considerata l’epoca attuale in cui l’uomo e la donna sono grigiamente livellati nell’annullamento delle loro ricche e reciprocamente arricchenti differenze, quanto mai puntuali risultano allora le parole (per cui evidentemente vale anche il loro senso reciproco), di Joseph De Maistre per il quale, appunto, «la cosa più ridicola di una donna è il tentativo di essere un uomo», così come oggi la cosa più ridicola non è tanto adottare l’ideologia gender per profitto, quanto piuttosto il tentativo di negare l’esistenza di una tale ideologia.
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