«Marco Prato era “uno di noi”. Nel senso che faceva la vita che molti gay facevano, al netto di certi eccessi: penso a quello della droga. La comunità Lgbt ha paura che si raccontino cose che tutti conoscono. Che si scoperchi il vaso di Pandora. Tutti sanno, ma è meglio non parlarne». A dirlo è Marco Pasqua, attivista omosessuale e giornalista presso Il Messaggero. Marco Prato (nella foto) è uno dei due killer del 23enne Luca Varani, barbaramente massacrato e ucciso il 4 marzo scorso in un quartiere romano.
La morte è avvenuta durante un festino gay a base di cocaina e alcol e si sta rivelando uno dei casi più terribili degli ultimi anni. Gli agghiaccianti particolari che emergono, ora dopo ora, descrivono uno scenario fuori da ogni immaginazione, tanto che c’è già chi afferma che il delitto consumatosi è ben peggiore del massacro del Circeo, poiché non c’è più nemmeno l’elemento politico come movente, ma soltanto la pura violenza e il vuoto esistenziale vissuto dai protagonisti.
E’ stata rilevata molta iniziale reticenza mediatica nel raccontare che l’omicidio è avvenuto all’interno di un’orgia omosessuale, pochi hanno raccontato che Marco Prato -assieme all’altro omicida, Manuel Foffo- è un noto attivista Lgbt della movida romana: «Nella Romanella frociona e godona Marco Prato era noto come “la lesbica con la parrucca”», si legge su Dagospia. «Assai noto nella Roma gaya e benestante». Organizzava serate al «primo e unico club transgender d’Italia» e su Twitter ritwittava chi sbeffeggia i credenti, i fedeli di Padre Pio e i difensori della famiglia. E’ effettivamente significativo che l’ultimo post pubblicato su Facebook dalla vittima, Luca Varani, sia stato contro i matrimoni omosessuali. Lo ha fatto notare Mario Adinolfi, anche se per ora non sembra che gli inquirenti abbiano indicato questo come movente. Tuttavia, rimane valida la sua riflessione: se la vittima fosse stato un difensore del Gay Pride, ucciso da due Sentinelle in Piedi dopo aver scritto un post a favore delle nozze omosessuali, allora si sarebbe scatenato il finimondo. E’ invece accaduto il contrario e, come è stato osservato, i cronisti sorvolano.
La stampa è stata tuttavia costretta a parlarne poiché lo stesso Marco Prato ha rivelato di aver accolto Varani nell’appartamento, travestito da donna, con parrucca, smalto e tacchi a spillo. Vestiva così da giorni perché il complice, Manuel Foffo, «voleva che fossi la sua bambolina». Il giovane è stato invitato, dicono, perché Foffo «voleva simulare uno stupro con un prostituto-maschio». Dopo un rapporto a tre, condito da pesanti dosi di cocaina, qualcuno ha versato un farmaco nel bicchiere di Varani, tanto da provocargli un malore. Foffo e Prato si sono accaniti sul 23enne«in preda a un improvviso e insensato odio e repulsione», colpendo la vittima alla testa con un martello, almeno trenta volte, accoltellandolo più volte fino a devastargli il collo e il volto, tentando di strozzarlo, sgozzandolo per non farlo urlare. E poi lasciandolo morire per dissanguamento. La tortura è durata dalla notte di giovedì alla mattina di venerdì, «gli abbiamo messo una coperta sul volto, respirava ancora», hanno detto i due. Quando i carabinieri sono entrati nell’appartamento il corpo aveva ancora la lama conficcata, i due killer, invece, dopo essersi addormentati sul corpo martoriato di Varani, sono usciti, si sono sbarazzati del cellulare e dei vestiti della vittima e si sono recati a bere in alcuni locali. Il gip di Roma ha spiegato che l’omicidio è arrivato in seguito ad una «fredda ideazione, pianificazione ed esecuzione. L’azione omicida presenta modalitàraccapriccianti. Il fatto è tanto efferato e preceduto da sevizie e torture, senza altro movente se non quello di appagare un crudele desiderio di malvagità».
Il sito web Dagospia, contattato da una fonte attendibile, ha raccontato che l’attivista Lgbt Marco Prato «amava fare sesso alla presenza di sangue. A volte usava anche delle lamette per fare o farsi dei piccoli tagli, succhiava il suo sangue e quello del compagno del momento. Quello che tutti ricordano è anche un rapporto conflittuale con la figura paterna. E una relazione ossessiva con quella materna». Quello di Prato ricorda molto il profilo di Mario Mieli, icona gay italiana a cui è dedicato il principale circolo omosessuale d’Italia, anche lui vestiva abiti femminili ed era protagonista di pratiche orribili, come la coprofagia (mangiare i propri escrementi).
La mattina dopo l’omicidio, Prato ha tentato il suicidio rivelando in alcune lettere il desiderio sempre nutrito di operarsi e “diventare” donna. Lo psichiatra Massimo Di Giannantonio, docente presso l’Università di Chieti, ha spiegato che «in questi casi ci troviamo di fronte ad un disturbo grave dell’identità di genere unito a una omosessualità egodistonica, elementi che incidono sull’equilibrio psicopatologico e possono portare l’individuo a un tentativo di ‘automedicazione’ con sostanze psicoattive come la cocaina». Sempre su Dagospia, si legge: «A Prato piacevano assai le “notti sbagliate”. Quelle in cui all’alcol e al sesso si univano abbondanti dosi di coca e di GHB. Quest’ultima è la droga “frocia” che in questo periodo va per la maggiore tra l’upper-class gaya meneghina e capitolina». Non va meglio a Milano, al noto locale gay Muccassassina: «al primo piano esiste una vasta e accogliente dark room, dove si consumano rapporti sessuali fugaci e anonimi, squallidi e sudati, ma che sono parte integrante, almeno per alcuni, di un rito settimanale che ha la sua liturgia», rivela Il Fatto Quotidiano.
Quello che è arrivato alle cronache nazionali è uno spaccato reale di vita gay, dello stile di vita di molti omosessuali militanti. Lo ha ammesso il già citato Marco Pasqua, omosessuale dichiarato e vice capo della cronaca de Il Messaggero: «Sono preoccupato, così come lo è la comunità LGBT romana. Marco era “uno di noi”. Nel senso che faceva la vita che molti gay facevano, al netto di certi eccessi: penso a quello della droga». E’ stato Pasqua a legare il caso alle folli serate arcobaleno: «Racconto un mondo che tutti i gay conoscono. Un mondo in cui navigano anche gli etero (repressi), quelli a caccia di transessuali, ma che potrebbero anche passare una notte con dei ragazzi gay. E’ una realtà borderline. La comunità ha paura che si raccontino cose che tutti conoscono. Che si scoperchi il vaso di Pandora. Tutti sanno, ma è meglio non parlarne».
Non sembra essere soltanto una caratteristica italiana. Simon Fanshawe, importante scrittore omosessuale e inglese, ha affermato: «noi uomini gay viviamo la vita da adolescenti, ancora ossessionati dal sesso, dai corpi, dalle droghe, dalla gioventù, e dall’essere “gay”. Abbiamo combattuto discriminazione e pregiudizio, ma solo per arrivare distruggere noi stessi con droghe e sesso selvaggio. Abbiamo normalizzato la prostituzione. E’ praticamente un percorso obbligato per qualsiasi ragazzo. Siamo assetati di vanità, abbiamo organizzato la nostra identità intorno al sesso e questo è deleterio. Così la promiscuità e la droga sono diventate la norma». Lo stesso ha rivelato Matthew Todd, drammaturgo e redattore della rivista gay inglese “Attitude”: «C’è questo luogo comune che passiamo tanto tempo a fare festa, ma in realtà noi lo sappiamo bene e le ricerche ora lo dimostrano: c’è un inferno di gay infelici, un alto numero di depressi, ansiosi e con istinti suicidi, che abusano di droghe e alcol e che soffrono di dipendenza sessuale, tassi molto più elevati di comportamento auto-distruttivi. La vita gay è incredibilmente sessualizzata. I ragazzi entrano in questo mondo sessualizzato dove c’è un sacco di alcol e un sacco di droga, non c’è nulla di sano, dolce o rilassato». Pochi giorni fa, altro esempio, il più noto attivista Lgbt in Germania, il politico Volker Beck (leader dei Verdi), è stato arrestato mentre lasciava l’appartamento di uno spacciatore, con addosso 0,6 g di Crystal Meth, droga usata nel “chemsex”, una sorta di sesso estremo e compulsivo praticato sopratutto in ambito omosessuale (lo stesso che praticava Marco Prato). Beck è anche noto per aver inneggiato alla depenalizzazione dei contatti sessuali con i bambini.
Queste persone, al di sopra di ogni sospetto, parlano ed accusano esplicitamente la “vita gay”, la “comunità gay”, mentre sappiamo bene che non esiste una vita o una comunità etero. Possono farlo perché quella omosessuale è una realtà numericamente piccola, dove pochi casi diventano statisticamente rilevanti, sopratutto se accade quello che questi attivisti Lgbt raccontano. In ogni caso, tornando all’omicidio del giovane Varani, seppur nella cronaca degli ultimi dieci anni esistano pochi casi di tale efferatezza psicopatica, ha comunque ragione chi chiede dinon generalizzare, di non colpevolizzare tutti gli omosessuali per quanto avvenuto (anche se poi chi lo chiede è il primo a colpevolizzare tutti i sacerdoti quando qualcuno di essi commette il crimine della pedofilia). Sarebbe ingiusto e irragionevole.
Ma è evidente che il tema qui è lo stile di vita di molti attivisti Lgbt, quello di chi si trova per picchiare le Sentinelle in Piedi, per impedire i convegni sulla famiglia, di coloro che diffondono odio sui Twitter (e che poi magari pretendono pure l’adozione dei bambini). Se non fosse così, la comunità gay non sarebbe preoccupata «che si raccontino cose che tutti i gay conoscono», come affermato dal giornalista omosessuale deIl Messaggero. Uno stile di vita, leggiamo, che solitamente crea «un inferno di gay infelici» ma che in questo caso ha prodotto anche due mostri umani. Anzi, l’inferno vero e proprio, colorato dalle gioiose tinte della bandiera arcobaleno.
La redazione | Uccronline.it/
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