«A voi bianchi Dio ha dato tutto. Il potere e la Bibbia. E voi utilizzate il nostro sangue per trovare l’oro. A noi, i neri, che cosa ha dato?». I minatori facevano sempre la stessa domanda a Daniel Rochat, che non poteva far altro che incoraggiarli a resistere. Il pastore svizzero è stato cappellano nelle miniere d’oro dell’Africa del Sud tra il 1968 e il 1972. Ha passato sette anni nella Chiesa presbiteriana del Mozambico, prima che lo mandassero in missione con la sua famiglia tra i mozambicani partiti per andare a lavorare nelle miniere d’oro dall’altro lato della frontiera. A 85 anni, stenta a trattenere le lacrime quando evoca la condizione dei minatori in un contesto di apartheid.
Sveglia alle due del mattino. Discesa nella miniera in ascensore a 50 km all’ora. Arrivati a 4000 metri di profondità, gli uomini a volte devono camminare più di un’ora prima di raggiungere il budello in cui, rannicchiati, estraggono il minerale. La temperatura raggiunge i 55 gradi Farenheit. Tra le 16 e le 18 risalgono. Daniel Rochat li aspetta alla superficie con il suo “bibliobus”, che abbonda di letteratura religiosa nelle lingue locali. «Li approcciavo parlando in tsonga o in inglese. E’ attraverso la lingua che si crea un legame, è la chiave della cultura». Ogni giorno il cappellano visita una delle 51 miniere disseminate su un territorio grande come la Svizzera. Celebra il culto davanti a 200 minatori. La sera, è nei dormitori che entra davvero in relazione con i minatori, che dividono in 20 uno spazio di 25 metri quadri. Gli anziani, dice Rochat, «sono i pastori delle miniere: si prendono cura della comunità». Reggere il colpo, resistere all’apartheid, all’avvilimento e restare in piedi: le parole di speranza del cappellano accompagnano i minatori. Daniel Rochat fornisce anche agli anziani le basi bibliche affinché possano pregare, insegnare il catechismo e reagire alla prostituzione fra maschi e all’alcolismo, piaghe delle miniere. «Molti hanno scoperto l’Evangelo in fondo alle miniere e hanno chiesto il battesimo», racconta.
«Papà, siamo sempre in Africa?», ha chiesto il maggiore dei figli del cappellano dopo il suo primo giorno di scuola. «In Mozambico noi vivevamo con i neri. In Africa del Sud siamo stati separati dalla comunità africana. E i bambini hanno subìto un insegnamento razzista in classi composte soltanto da bianchi. Nella chiesa inglese, nessuno ha mai rivolto la parola a mia moglie perché io ero al servizio dei neri. Non potevamo reagire, pena l’espulsione dal Paese».
Ancora oggi, il ricordo è doloroso. Di ritorno in Svizzera, Daniel Rochat conserva un sentimento di tristezza carico di rivolta contro lo sfruttamento spaventoso dell’essere umano. «Dobbiamo reagire alla disperazione umana provocata dal sistema economico. L’oro è dappertutto ma da dove viene?». Se l’apartheid è finito, i neri si battono ancora per gli stessi diritti. Nelle miniere, è cambiato poco. «Le miniere si esauriscono; il lavoro è ancora più pericoloso e soltanto i più poveri vogliono ancora lavorarci. Il salario è aumentato ma la fatica resta la stessa. Oggi non ci sono più cappellani nelle miniere», conclude il pastore.
Marie Destraz per Bonne Nouvelle (traduz. Federica Tourn)
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