Lo scrittore agli Ebrei ci dice: “Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato” (Ebrei 4:15).
La maggior parte dei cristiani conosce questo verso. Ci dice che il nostro sommo sacerdote Gesù sente con noi le nostre sofferenze. La parola greca per “simpatizzare” significa qui “provare un sentimento dovuto al fatto di aver attraversato lo stesso tipo di sofferenze”. In altre parole, il nostro Signore è toccato personalmente da ogni calamità, dolore, confusione e disperazione che possiamo provare. Tutto quello che possiamo sopportare l’ha sopportato anche lui, in un modo o nell’altro.
Perché abbiamo un tale grande sommo sacerdote, ci viene detto: “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ottenere misericordia e trovar grazia ed essere soccorsi al momento opportuno” (Ebrei 4:16). Ci viene detto: “Il tuo Salvatore sa esattamente cosa stai passando. E sa esattamente come ministrarti la sua grazia”. A questo punto, mi domando: quando siamo nei momenti di grande bisogno, dove “troviamo grazia”, come suggerisce Ebrei?
Ho sentito la maggior parte delle definizioni teologiche della grazia: favore immeritato, bontà di Dio, il suo amore speciale. Ma per me grazia ha acquisito un altro significato lo scorso dicembre, quando la mia nipotina undicenne Tiffany ha dovuto fare un esame per vedere se aveva un tumore al cervello. Io e mia moglie Gwen ci trovavamo all’ospedale insieme a nostra figlia Debbie e a suo marito Roger, il giorno in cui i dottori fecero quell’esame sulla nostra preziosa nipotina. E mentre aspettavamo i risultati, non potevamo che pregare per ottenere grazia.
Tutto era avvenuto in maniera così improvvisa. Soltanto il giorno prima, Debbie e Roger ci avevano chiamato chiedendoci di pregare mentre portavano Tiffany dal dottore. Aveva avuto dei mal di testa terribili, e stava iniziando a sanguinare dall’occhio. Attaccando il telefono, dissi a Gwen: “La vita è così fragile. Basta una telefonata per capovolgere tutto il tuo mondo”.
Il giorno seguente, arrivando all’ospedale della Virginia, io e Gwen vedemmo tanti genitori disperati nelle corsie. Avevano tutti delle espressioni preoccupate, si abbracciavano in attesa di ogni probabile cattiva notizia riguardo i loro figli. Spesso, quando si sentivano dire le parole orribili – “È maligno” – alcuni gridavano in agonia, lasciandosi totalmente andare.
E mentre attendevamo i risultati di laboratorio, pregai silenziosamente per poter accettare con forza qualsiasi verdetto fosse arrivato. In quel momento, non m’importava quale fosse il significato teologico di grazia. Per me significava avere la pace di Dio, e accettare qualsiasi notizia senza cadere nel panico. Pregai: “Signore, sappiamo che fai ogni cosa nel modo giusto. Abbiamo messo la nostra fiducia in te. Non farci peccare con le nostre labbra. Dacci la tua grazia per sopportare tutto questo”.
Poi arrivò il torrente delle cattive notizie: Tiffany aveva un grande tumore, uno dei peggiori. Era maligno.
Avevo udito quella orrenda parola “maligno” già otto volte prima. Gwen, Debbie e la nostra figlia minore Bonnie, avevano tutte combattuto con il cancro. Grazie al Signore, siamo sopravvissuti a quei momenti terribili. Eppure ogni volta che sentivo quelle notizie negative, erano le peggiori che avessi mai sentito. Non posso descrivervi che ciò che Gwen ed io provammo in quel momento con la nostra nipote Tiffany. Vi posso dire solo che il mio dolore mi portò a leggere il libro di Giobbe.
Giobbe era un uomo pio, la cui famiglia era molto unita. Lui e sua moglie avevano dieci figli adulti, sette maschi e tre femmine. Giobbe pregava giornalmente per i suoi figli, offrendo sacrifici per conto loro: “Perché diceva: “Può darsi che i miei figli abbiano peccato e abbiano rinnegato Dio in cuor loro”. Giobbe faceva sempre così” (Giobbe 1:5).
Giobbe non aveva idea di quello che stava accadendo in cielo fra Dio e Satana. Nessuno lo aveva avvertito che la sua famiglia sarebbe stata colpita da un’improvvisa calamità. E la Bibbia raffigura una scena raccapricciante: nel giro di un solo giorno, Giobbe non perse soltanto i suoi servi e i suoi possedimenti, ma tutti e dieci i suoi figli morirono in un disastro naturale (vedi Giobbe 1:13-22).
Quando inferisce la calamità, ci sono soltanto due modi di reagire
Cercate di immaginare la tragica perdita di Giobbe e sua moglie. Nel giro di poche ore, dalle loro vite era stato strappato tutto ciò che avevano di più caro: tutti i loro cari, ogni servo e ogni donzella. Ma nonostante il suo grande dolore, Giobbe scelse di reagire secondo l’alternativa positiva. Mentre sue moglie scelse quella negativa.
La moglie di Giobbe sicuramente fu amareggiata nel sentirsi dire dal messaggero: “Il fuoco di Dio è caduto dal cielo, ha colpito le pecore e i servi, e li ha divorati” (Giobbe 1:16). E mentre assorbiva la terribile notizia, questa donna rifiutò di essere consolata. Ella accusò Dio stoltamente, istigando suo marito: “Maledici Dio e muori” (2:9). Stava dicendo, in effetti: “Perché il Signore ha scatenato quest’orribile tragedia sulla nostra famiglia così perbene?”
Personalmente, non posso biasimare la moglie di Giobbe per la sua reazione. Se anch’io avessi perso tutti i miei figli e i miei cari in un solo pomeriggio, mi sarei potuto trovare nelle sue stesse condizioni. Credo che quando arrivò quella terribile notizia, la moglie di Giobbe morì interiormente. Era fisicamente viva, ma il suo cuore era morto.
Ma doveva arrivare ancora un’altra tragedia. Subito dopo suo marito fu colpito da bolle dolorose, dal capo ai piedi. Giobbe finì seduto sulla cenere, a grattarsi la pelle con dei cocci di ceramica, per sperare di sollevare il dolore. La vista di questo uomo malato era così orrenda, che la gente si girava dall’altra parte costernata. Persino gli amici di Giobbe non lo riconobbero a prima vista. E dopo averlo fatto, non riuscirono più a guardarlo. Si sedettero a distanza da lui, piangendo e lamentandosi per quello che era accaduto al loro amico.
Nel frattempo, la moglie di Giobbe probabilmente si era ammutolita. Il ricordo delle gioiose riunioni familiari e le speranze per il futuro erano andati in frantumo. Tutto il suo mondo le era crollato addosso. Non avrebbe mai potuto godere più quella gioia o quella speranza. Tutto in lei era morto: l’amore, la speranza, la fede. E rabbia ed incredulità riempivano il suo cuore.
Ma anche Giobbe era profondamente rattristato. Quest’uomo aveva veramente bisogno di una parola di conforto. Ma al contrario, sua moglie esplose e disse: “Ancora mantieni la tua integrità” (2:9). In quest’espressione così tagliente possiamo notare due cose. Prima di tutto, lei stava chiedendo: “Quale orribile peccato nascosto hai commesso, Giobbe, tanto da attirarci addosso il giudizio di Dio? Non cercare di convincermi che sei ancora una persona integra!”
Secondo, stava insinuando: “E’ così che Dio tratta una famiglia di persone oneste? Tutti giorni abbiamo offerto olocausti per la famiglia. Abbiamo camminato perfettamente davanti al Signore. Ed abbiamo usato la nostra abbondanza per benedire i poveri. Perché il Signore ci ha privato di quello che avevamo di più prezioso? Non posso servire un Dio che permette tutto questo”.
Poi questa donna amareggiata pronunciò queste orribili parole: “Maledici Dio e muori” (2:9). Stava riconoscendo: “Io sono già morta, Giobbe. Cosa mi rimane? È meglio morire che vivere senza i nostri figli. Perciò, dai, maledici Dio e muori insieme a me”.
La sua condizione illustra la grande battaglia contro il nemico che ognuno di noi affronta quando avviene una tragedia. Ho visto di recente questa battaglia in una giovane donna accanto alla quale ero seduto in aeroplano. Notai che stava piangendo sommessamente. Le dissi che ero un ministro di culto e le chiesi se potevo aiutarla. Mi rispose: “Senta, non riesco proprio a credere nel suo Dio”.
Mi raccontò che suo padre era morto improvvisamente. Lo descrisse come un uomo buono, uno che si era fatto a pezzi per aiutare gli altri. Piangendo lacrime amare, questa donna mi disse: “Non credo in un Dio che decide di uccidere un buon padre nel fiore della sua età”. Aveva scelto la terribile alternativa della moglie di Giobbe: ella aveva accusato Dio ed era sprofondata nella disperazione. Nonostante fosse viva fisicamente, al suo interno era morta.
Giobbe scelse la giusta alternativa
Nonostante il dolore di Giobbe fosse “molto grande” (Giobbe 2:13), egli si confidò in Dio nel bel mezzo delle sue prove e dei suoi dolori. Come la moglie, anche lui avrebbe desiderato morire. La sua disperazione era arrivata al punto in cui avrebbe preferito non essere mai nato. Eppure, in tutto questo, Giobbe affermò: “Anche se dovesse uccidermi, io confiderò in lui” (Giobbe 13:15).
In effetti, Giobbe stava dicendo: “Non importa se queste piaghe mi porteranno alla tomba. Io continuerò a confidare nel Signore. Non rinuncerò a confidare in lui, perché so che lui continua ad operare. Anche se non capisco il motivo di questa tragedia, so che Dio ha un piano eterno. Anche se decidesse di farmi morire, confiderò in lui fino all’ultimo alito di vita che avrò”.
Come Davide, a volte anch’io ho espresso il mio dolore con le lacrime. Davide scriveva: “Oh, se avessi le ali di una colomba! Volerei e sarei al sicuro.. mi nasconderei dalla tempesta e dal vento” (vedi Salmo 55:6,8). Eppure devo ammettere che non ho mai provato un dolore simile a quello di Giobbe. Non sono mai arrivato al punto di augurarmi la morte.
In quell’ospedale della Virginia, io e Gwen vedemmo esempi di entrambe le reazioni. I casi erano veramente tragici: una bambina di due anni era caduta da ventuno scalini e le stavano curando un trauma cranico. Un altro bambino ferito gravemente era stato portato di corsa all’ospedale con l’elicottero. Una minuscola ragazzina, pallida e debole, ci passò davanti spingendosi sulla sedia a rotelle. Un’altra bambina aveva perso i lumi della ragione, e diceva cose senza senso.
Di solito si riesce a capire quali dei genitori di questi bambini sofferenti sono cristiani. Passando davanti ad alcune stanze, abbiamo avvertito una grande pace. In quei casi, abbiamo sentito la potenza consolatrice di Dio all’opera, mentre i genitori confidavano nella Parola di Dio.
Ma in altre stanze, c’era un incredibile caos e un disordine. Si poteva percepire benissimo la disperazione di quei genitori. Essi accusavano Dio, chiedendosi: “Perché Dio ha permesso tutto questo?” Li abbiamo visti battere la testa contro il muro, domandandosi rabbiosamente: “Perché? Perché? Perché?”
Quando viene la tua calamità, sei costretto a fare una scelta. Puoi impazzire chiedendo continuamente a Dio: “Perché?” Oppure puoi dire: “Signore, non importa ciò che avverrà, so che hai la grazia ed il potere di sostenermi”. Come seguaci di Gesù, dobbiamo semplicemente correre presso il nostro sommo sacerdote, per ottenere il conforto e la misericordia dello Spirito Santo. E dobbiamo confidare nell’onnisciente grazia di Dio. A volte possiamo anche gridare, soffrire e desiderare la morte. Forse non riusciremo a dormire, con la mente inondata da domande. Eppure Dio ci permetterà di superare tutte queste cose. Fanno tutte parte del suo processo di guarigione.
Ma esattamente in che modo scopriamo l’aiuto della sua grazia nei momenti di bisogno? In che modo ci viene dispensata la sua grazia? Quando siamo nel bel mezzo di una crisi, non possiamo fare affidamento su definizioni teologiche alquanto confuse. Abbiamo bisogno dell’aiuto concreto di Dio. Come otteniamo la sua grazia nel nostro cuore, nella nostra anima e nel nostro fisico, quando soffriamo?
Credo che veniamo toccati dalla grazia di Dio in almeno due modi meravigliosi:
1. Quando siamo nelle prove, Dio ci dispensa la sua grazia tramite rivelazioni che altrimenti non avremmo mai capito
In tutta la Scrittura, le maggiori rivelazioni della bontà di Dio sono state ottenute da gente che si trovava in mezzo a prove, calamità, desolazione e difficoltà. Troviamo un esempio di questo nella vita di Giovanni. Per tre anni, questo discepolo si accovacciò sul petto di Gesù. Era un periodo di somma pace, riposo e gioia, un periodo in cui non vi erano prove o tribolazioni. Eppure, in tutto quel tempo, Giovanni ricevette pochissime rivelazioni. Conosceva Gesù solo come il Figlio dell’uomo. Quand’è che Giovanni ricevette la rivelazione di Cristo in tutta la sua gloria?
Soltanto quando fu portato da Efeso in catene. Fu esiliato nell’isola di Patmos, dove fu condannato ai lavori forzati. Era isolato, senza amicizie, senza famiglia o amici che lo potessero consolare. Fu un periodo di profonda disperazione, forse il peggiore della sua vita.
Eppure fu proprio in quel momento che Giovanni ricevette la rivelazione del suo Signore che sarebbe diventata l’elemento finale delle Scritture: il libro dell’Apocalisse. Proprio nel bel mezzo di quell’ora tenebrosa, la luce dello Spirito Santo giunse a lui. E Giovanni vide Gesù come non l’aveva mai visto prima. Vide letteralmente il Cristo come Figlio di Dio.
Giovanni non aveva mai ricevuto questa rivelazione mentre era insieme agli altri apostoli, neanche durante i giorni di Gesù sulla terra. Eppure adesso, nel periodo più buio della sua vita, Giovanni vide Cristo in tutta la sua gloria, e lo sentì affermare: “Io sono colui che vive, e che fu morto; ed ecco, io vivo per sempre, Amen. Ed ho le chiavi dell’inferno e della morte” (Apocalisse 1:18). Quest’incredibile rivelazione piegò in due Giovanni. Ma Gesù lo sollevò e gli mostrò le chiavi che teneva in mano. E rassicurò Giovani: “Non temere” (1:17).
Credo che questa rivelazione giunga ad ogni servo che prega e che soffre, nel momento in cui più ne ha bisogno. Lo Spirito Santo dice: “Gesù tiene in mano le chiavi della morte e della vita. Perciò la vita di ognuno è nelle Sue mani. Satana non può prendersi te o qualche membro della tua famiglia. Solo Cristo può determinare il nostro destino eterno. Perciò, se Lui gira la chiave, ha tutti i buoni motivi per farlo. E soltanto Lui, il Padre e lo Spirito Santo, sa il perché”.
Questa rivelazione ha lo scopo di recare pace ai nostri cuori. Come Giovanni, dobbiamo vedere Gesù davanti a noi, che tiene le chiavi della vita e della morte, e che ci dice: “Non temere. Ho tutte le chiavi in mano”. Quale sarà la nostra risposta? Come Giobbe, dobbiamo dire in fede: “Il Signore da e il Signore prende; benedetto sia il nome del Signore” (Giobbe 1:21).
Un ministro in crisi scrisse le parole seguenti: “Quindici anni fa, mia moglie ebbe un cancro al seno. Ora gliene hanno diagnosticato uno al pancreas. Forse dovremo ricoverarla in un ospizio. Sono coinvolto nell’opera di Dio da quarant’anni. Devo forse domandarmi: è stato tutto un lavoro invano? Non è contato niente? Dio non vorrà darci una pausa?”
Dico a questo caro fratello: credo che proprio in questo momento, nel periodo più buio della tua vita, Gesù ti voglia rivelare la sua deità. Sì, sei profondamente ferito. Ma se confidi in lui in questa prova, riceverai una rivelazione che aprirà i tuoi occhi a cose che non ha mai visto o capito prima. E sarai usato dal Signore per aiutare gli altri.
Anche Giacobbe ricevette una grande rivelazione nella sua ora più buia
La Bibbia ci dice che Giacobbe ricevette una rivelazione incredibile, dopo un incontro a tu per tu con Dio: “Giacobbe chiamò il posto con il nome di Peniel, perché disse: Io ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata risparmiata” (Genesi 32:30). Quali furono le circostanze che precedettero questa rivelazione? Fu il periodo più terribile e più pauroso della vita di Giacobbe. In quel periodo, Giacobbe era al centro di due forze incredibili: Labano, il suocero infuriato, ed Esaù, il fratello ostile ed amareggiato.
Giacobbe aveva appena finito di lavorare vent’anni per Labano, che l’aveva preso in giro di volta in volta. Alla fine, Giacobbe non ne poté più. Perciò, senza dire niente a Labano, prese la sua famiglia e scappò.
Labano lo inseguì con un piccolo esercito, pronto ad ucciderlo. Eppure, solo quando Dio avvertì Labano in sogno di non far del male a Giacobbe, quest’uomo lasciò andare il genero. Poco dopo essersi risolta questa faccenda, Giacobbe si ritrovò contro Esaù. Anche lui aveva preparato un piccolo esercito di 400 uomini armati, pronti ad uccidere suo fratello perché gli aveva rubato la primogenitura.
Giacobbe si trovò di fronte ad una totale calamità, convinto di essere sul punto di perdere tutto. Tutto sembrava disperato. Eppure, in quel momento terribile, Giacobbe ebbe un incontro con Dio come mai aveva avuto prima. Lottò con un angelo che gli studiosi credono fosse il Signore stesso. E in seguito disse: “Ho visto Dio faccia a faccia, e la mia vita è stata preservata” (Genesi 32:30).
Ora ripensiamo a Giobbe. Quest’uomo era al culmine della sua vita. Aveva sopportato un dolore incredibile, era agonizzante per la sofferenza fisica ed inoltre i suoi amici lo avevano rigettato. Eppure, nell’ora più buia di Giobbe, Dio gli apparve in un turbine. E il Signore diede a quest’uomo una delle rivelazioni più grandi di se stesso, mai testimoniate da alcun essere umano.
Dio portò Giobbe nel cosmo, poi nelle profondità del mare. Lo condusse nei segreti della creazione. E Giobbe vide cose che nessun altro aveva mai visto. Gli fu mostrata la gloria e la maestà di Dio. Giobbe emerse da quell’esperienza lodando Dio e dicendo: “Ora so che puoi fare tutto, Signore. Mi pento per aver dubitato e posto delle domande. Vedo che tutto è sotto il tuo controllo ed è diretto dalla tua grazia. Hai dei piani stupendi. In passato avevo sentito soltanto parlare di te, ma ora i miei occhi ti hanno visto” (vedi Giobbe 42:2-5).
Accade qualcosa di meraviglioso quando crediamo semplicemente. Una pace ci inonda e ci fa dire: “Non importa quello che avverrà. Il mio Dio ha tutto sotto controllo. Non ho niente da temere”.
Potreste forse obiettare: “Ma preferirei che Dio sistemasse tutto, e rimuovesse il mio dolore e la mia sofferenza. Sarei più contento di ricevere meno rivelazioni”. No, la rivelazione che hai ricevuto non serve soltanto a confortarti. Serve a darti grazia, affinché tu dispensi la grazia guaritrice di Dio agli altri.
2. Dio dispensa la sua grazia attraverso il suo popolo
Dio usa spesso degli angeli per ministrare al suo popolo. Ma soprattutto, usa il suo popolo per ministrare agli altri la sua grazia. Questo è uno dei motivi per cui siamo partecipi della sua grazia: per diventare canali di essa. Dobbiamo dispensarla agli altri. Io definisco questo concetto come “la grazia umana”.
“Ma a ciascuno di noi la grazia è stata data secondo la misura del dono di Cristo” (Efesini 4:7). A motivo della consolazione che ci è stata data dalla grazia del Signore Gesù, è impossibile continuare a lamentarsi per tutta la vita. Ad un certo punto, quando siamo guariti dal Signore, iniziamo a costruire una riserva della grazia divina.
Credo che intendeva questo Paolo, quando scrisse: “Sono diventato servitore secondo il dono della grazia di Dio a me concessa… di annunziare agli stranieri le insondabili ricchezze di Cristo” (3:7-8). “Siete partecipi con me della grazia” (Filippesi 1:7). L’apostolo sta facendo qui un’asserzione profonda. Sta dicendo: “Quando mi accosto al trono di Dio per ottenere grazia, è per il vostro bene. Voglio essere un pastore misericordioso per voi, e non un giudice. Voglio potervi dispensare grazia nei momenti di bisogno”. Era la grazia di Dio a rendere Paolo un pastore compassionevole, in grado di piangere con quelli che piangevano.
Pietro scriveva: “Come buoni amministratori della svariata grazia di Dio, ciascuno, secondo il dono che ha ricevuto, lo metta a servizio degli altri” (1 Pietro 4:10). Cosa significa essere un buon amministratore, o dispensatore, della multiforme grazia di Dio? Sono una persona del genere? O spendo il mio tempo pregando soltanto per i miei problemi e le mie necessità?
Quando ci trovavamo all’ospedale insieme a Tiffany, vedemmo “la divina grazia umana” in azione. Debbie e Roger furono inondati dall’amore della comunità di cui fanno parte. Il sostegno di quei santi, insieme a quello del loro bravo pastore e di sua moglie, verso la nostra famiglia è stato incredibile. Scorreva grazia da tutte le parti: gente portava i pasti per Debbie e Roger, altri portavano pupazzetti per Tiffany. Un gruppo ci disse: “Non vogliamo seccarvi. Siamo venuti soltanto a pregare”. Perciò si misero fuori dalla stanza di Tiffany ed intercedettero.
Ho visto la stessa grazia scorrere dalla Chiesa di Times Square quando tornammo a casa. Il pastore Carter Colon aveva lasciato un messaggio sulla nostra segreteria telefonica, nel quale diceva: “David e Gwen, vi amiamo. Questa chiesa sta pregando per Tiffany”. In seguito, camminando per le strade di New York ricolmo di dolore, fui intravisto dal nostro pastore Neil Rhodes. Egli si fermò e mi disse: “Pastore David, tu e la tua famiglia ci siete tanto cari. Siamo tutti dalla vostra parte”. Il mio spirito fu sollevato, mediante la grazia che mi era stata ministrata in quel momento.
Ho visto questa stessa grazia umana nella sala d’attesa di quell’ospedale della Virginia. Mentre stavo parlando con Roger e Debbie dell’operazione di Tiffany, vidi entrare una mamma affranta. Si sedette sul sofà, con un aspetto assolutamente distrutto. Quando le chiesi cosa non andava, mi rispose: “Il rene del mio ragazzo quindicenne ha smesso di funzionare poche settimane fa. Se non riceve un trapianto, riuscirà a sopravvivere solo per poche settimane”.
Chiesi alla donna se potevo pregare per lei. Mi rispose di sì, così iniziai a pregare. Dopo un paio di minuti, sentii dei singhiozzi e così smisi di pregare e aprii gli occhi. Debbie le si era seduta accanto, e le due si abbracciavano – piangendo insieme e confortandosi l’un l’altra.
Poi Debbie iniziò a pregare per la donna. Sapevo che la sua preghiera nasceva da un cuore affranto. E mi resi conto che stavo assistendo ad una ministrazione di grazia. Mia figlia e questa donna sofferente erano unite in un abbraccio di dolore comune.
Carissimi, le nostre presenti afflizioni stanno producendo qualcosa di prezioso nelle nostre vite. Stanno formando in noi il desiderio di un dono di misericordia e di grazia, da offrire a chi è sofferente. Le nostre sofferenze ci rendono donatori di grazia.
Penso che per questo motivo mi sentii così angosciato nel leggere di recente il libro di Giobbe. Ero arrabbiato per quei tre cosiddetti amici di Giobbe, che lo avevano trattato così male nonostante il suo dolore. Pagina dopo pagina, sulla mia Bibbia scrissi: “Che crudeli! Che cattivi!” Questi uomini dissero a Giobbe: “Se proprio sei puro e integro, certo egli sorgerà in tuo favore e restaurerà la tua giusta dimora” (Giobbe 8:6). “Hai dimenticato Dio, Giobbe. Sei un ipocrita” (vedi 8:13). “Sei pieno di vanità e di bugie” (vedi 11:2-3). “Stai ricevendo meno di quanto meritano i tuoi peccati” (vedi 11:6).
Pochi mesi fa, scrissi un messaggio intitolato “Non devi capire le tue afflizioni – hai la grazia”. In seguito, ricevetti diverse lettere angosciate da parte dei lettori. Mi scrivevano, in effetti: “Mi cancelli dalla sua lista. Forse lei non capisce perché soffre così tanto, ma io sì. Lei non ha fede. Non voglio aver niente a che fare col suo genere di Evangelo. Dovrebbe avere potenza sulle sue afflizioni”.
Ovviamente, queste risposte non erano state date nello Spirito di Cristo. Non erano caratterizzate dalla grazia e dalla compassione che contraddistingue il nostro Signore. Alcuni in realtà godono nel vedere le sofferenze degli altri. Quando Debbie fu colpita per la prima volta dal cancro, i responsabili della chiesa che frequentava le chiesero di andarsene. Le dissero: “Non sei una testimonianza della potenza guaritrice di Dio”.
Questo genere di parole crudeli mi fanno gridare insieme a Paolo: “Signore, fammi diventare un dispensatore di grazia. Fammi gustare la tua misericordia, in modo che possa mostrarla agli altri”. Non provo rabbia verso queste povere anime deluse. So che, purtroppo, verrà un tempo in cui dovranno affrontare anche loro delle calamità e dei dolori. E non avranno delle risorse interiori per affrontarle.
Giobbe, invece, divenne un dispensatore di grazia. Proprio perché quest’uomo pose tutta la sua fiducia in Dio, fu in grado di dar grazia alla moglie amareggiata. Questo è ancora più significativo se si considera lo stato in cui si trovava questa donna. Se foste stati insieme a lei quando udì la tremenda notizia dei suoi figli, avreste pensato: “Non uscirà mai più da questa situazione. Non sorriderà più e non condurrà mai più una vita normale”.
Eppure, non molto tempo dopo, la sua casa fu di nuovo piena di gioia e risate. Vide il marito guarito dalla malattia. E diede alla luce altri dieci figli: sette figli e tre figlie, proprio come prima. Tutto era stato restaurato, e anche di più.
Giobbe e sua moglie chiamarono la loro prima figlia Jemima, che significa “piccola colomba tenera ed amorevole”. E questo ci parla della grazia di Dio: la stessa donna che aveva detto al marito di maledire Dio, ora veniva benedetta da una piccola colomba che aveva portato pace in quella casa.
Non solo la moglie di Giobbe ritornò a vivere, ma rise e gioì di nuovo. Ovviamente, non avrebbe mai dimenticato il passato. Ma le si era aperto un nuovo mondo di benedizione e di gioia. E il giusto Giobbe visse altri 140 anni. La Scrittura ci dice che quest’uomo pio visse per vedere “i suoi figli, i figli dei suoi figli, e altre quattro generazioni” (Giobbe 42:16).
La Parola di Dio ci assicura: “La sera ci accompagna il pianto; ma la mattina viene la gioia” (Salmo 30:5). E tutto avviene per grazia!
David Wilkerson
Ferrentino Francesco La Manna | Notiziecristiane.com
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