Una scommessa: mettere insieme saperi ed esperienze per proporre una nuova visione del sistema carcerario; superare un sistema basato sul principio retributivo che sancisce la proporzionalità della pena in base al reato, dove per fatti di uguale gravità si prevedono sanzioni altrettanto gravi, senza considerare l’individuo. Il lavoro dell’associazione Spondé, il cui nome riprende la parola greca con la quale si fa riferimento al sacrificio offerto per sancire l’esito positivo di una trattativa di pace, vuole riportare l’essere umano al centro del dialogo senza fare progetti sulla persona ma dando la possibilità al soggetto di prendere la parola e decidere responsabilmente della propria vita. L’obiettivo e la scommessa più grande è quella di creare un ponte tra due mondi: quello della vittima di un crimine e quello di chi ha commesso un crimine, supportando la prima e responsabilizzando il condannato.
L’associazione opera a livello nazionale cercando di mettere in dialogo i vari uffici e gestendo vari sportelli di supporto alle vittime e di mediazione carceraria organizzando anche corsi di formazione per mediatori sociali e penali e operatori di giustizia riparativa. Uno di questi spazi è all’interno del Centro diaconale La Noce di Palermo.
Ne parla Maria Pia Giuffrida, ex dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria, mediatrice penale, presidente dell’associazione Spondé.
Le persone che stanno in carcere hanno senz’altro un debito con la società. Cosa significa ragionare sui diritti dei reclusi?
«La mia attenzione per la giustizia riparativa nasce durante la mia trentennale esperienza di lavoro in carcere proprio perché ho visto l’inefficacia di un sistema soltanto retributivo e trattamentale.
Nella mia esperienza professionale ho avvertito l’assenza, durante il percorso di riabilitazione, di un elemento fondamentale come la vittima e ho cercato di integrare la mia lettura e l’applicazione di modelli operativi del servizio sociale e degli operatori penitenziali nella prospettiva riparativa, rimettendo al centro di alcuni ragionamento fondanti la vittima come soggetto che ha subito il reato. Il sistema penitenziario si è rivolto sempre soltanto all’aspetto retributivo o all’aspetto reocentrico valorizzando, giustamente, il reinserimento del reo, che però a mio parere è scarsamente possibile se non si ricompone la frattura prodotta dal reato sulla vittima. Il reato, dice una direttiva di Strasburgo, non è solo la lesione di una norma, ma è la rottura di una relazione e il danno fatto ai diritti di un soggetto che è la vittima. Secondo me il ragionamento da fare, in una prospettiva riparativa è ricominciare a ripensare partendo dalla vittima e dalla sua soggettività, ai sensi della norma che ho prima citato, e che il 16 novembre ha trovato in Italia un recepimento molto parziale. Mi auguro che il nostro governo voglia fare un passo in più per dare significato agli aspetti altamente fondanti di questa direttiva importantissima».
Ci sono dei requisiti per accedere ai servizi di giustizia riparativa?
«Fondamentalmente i criteri sono quelli che detta l’Europa: non c’è riparazione se non c’è preliminarmente una seria responsabilizzazione del reo rispetto al fatto commesso e al danno recato a qualcuno che si chiama, appunto, vittima, o ancora alla comunità nel suo insieme come oggetto del reato. Il percorso di responsabilizzazione, assolutamente indispensabile, è già quello che, ai sensi del regolamento penitenziario art. 27/118, il reo dovrebbe fare con l’aiuto degli operatori verso una riflessione di riparazione nei confronti delle vittime, quindi già in nuce nel nostro ordinamento c’è la spinta verso la giustizia riparativa. Spesso si confonde il lavoro di pubblica utilità e il volontariato con la riparazione ma c’è riparazione soltanto se prima c’è stato un percorso verso la responsabilità e può essere solo una scelta volontaria e non prescritta del reo e poi della vittima. Intendo dire: la giustizia riparativa non è prescrivibile, come di fatto alcune volte nella giurisprudenza italiana è successo, ma deve essere una scelta libera e consapevole del reo altrimenti non è riparazione, non coincide col significato profondo della riparazione».
Emerge quindi la delicatezza del ruolo di mediatore. Quali sono le sue competenze e le responsabilità?
«Viene fuori l’importanza sia dell’operatore penitenziario di saper lavorare in questa prospettiva, sia del mediatore che deve essere competente, secondo l’approccio che mette in pratica. Noi abbiamo scelto il modello umanistico non negoziale che rimette al centro l’essere umano e le due parti, reo e vittima, e restituisce sempre la parola a questi due soggetti. È fondamentale che il mediatore sia formato; oggi non esiste una definizione ufficiale di questo profilo, ed è ciò su cui si è lavorato anche agli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, nel tavolo 13 (Giustizia riparativa, mediazione e tutela delle vittime del reato) di cui io ho fatto parte. A mio parere la formazione alla mediazione deve comprendere, come dice l’Europa, una larga parte di apprendimento sul campo in una dimensione esperienziale, oltre ad apprendere gli aspetti teorici; deve anche esserci una giusta e corretta contestualizzazione nell’ambito di discipline fondanti quali la giurisprudenza, la criminologia, la psicologia. È fondamentale che il mediatore abbia degli strumenti di comprensione della situazione che ha davanti. Questo tutela sia il reo, il suo diritto di scegliere liberamente la riparazione, sia le vittime che sono il soggetto più debole che deve essere tutelato contro una selvaggia seconda vittimizzazione, come spesso accade in Italia».
Quali sono secondo lei le principali inadeguatezze del sistema carcerario e in che modo la giustizia riparativa risponde?
«Si parla tanto del sovraffollamento, ma al di là di questo, che può essere una variante che sicuramente appesantisce il sistema, il problema è proprio l’estrema burocratizzazione intorno alle pratiche e a degli adempimenti e che ha tralasciato, generalizzando un po’, uno dei principi fondamentali introdotti dall’ordinamento penitenziario, ovvero l’ individualizzazione del trattamento. Praticamente si tende a trattenere il detenuto più che a trattarlo: si lavora poco sulla responsabilità perché anche gli operatori hanno bisogno di una sensibilizzazione, di un modo nuovo di guardare alla vittima. Questo, da un punto di vista di efficacia del tempo della pena, posso dire che è il problema più grave: il consolidamento di aspetti regolamentari routinari e burocratizzati e la marginalizzazione di aspetti fondanti dei significati del trattamento, del senso della pena».
In questo contesto come si colloca la cappellania carceraria?
«Credo che sia una dimensione molto importante. Io non riconosco nella religione un elemento trattamentale alla stregua degli altri, credo che sia una dimensione diadica, che tocca l’intimità dell’essere umano; credo che abbia una forza di sollecitazione fortissima ma che debba lavorare meticciando i linguaggi con gli operatori, sia penitenziari che con i mediatori. Bisogna anche intendersi su alcuni significati, tanto per fare un esempio: la ricerca del perdono, la sollecitazione del detenuto al perdono da parte dei cappellani non è sempre la strada migliore per quanto riguarda la garanzia della vittima. Bisogna fare passi con grande delicatezza altrimenti rischiamo di diventare invasivi rispetto a un mondo che oggi non è tutelato in nessun modo, quello della vittima, per migliorare il reo. Il problema è trovare un punto di equilibrio tra questi aspetti».
Venendo invece all’associazione Spondé, quali le iniziative e come si svolge il suo lavoro?
«Io ho fatto nascere l’associazione con dei giovani soci perché ritenevo che l’esperienza fatta nell’amministrazione penitenziaria mi avesse dato la contezza del bisogno di una cultura nuova sul reato, sul reinserimento e sulla vittima. L’associazione nasce soprattutto intorno a questa spinta e il primo progetto che ha implementato è la Casa del Diritto e della Mediazione, in cui vengono a strutturarsi tre iniziative complementari e parallele: noi apriamo a servizi per le vittime secondo quello che la direttiva di Strasburgo ci insegna, quindi servizi per vittime non impostati secondo la tipologia di reato subito, ma come offerta di uno spazio di parola libero da qualsiasi condizionamento o volontaria e involontaria pressione verso la denuncia, uno spazio libero anche dalla capacità degli operatori di proporre sempre e soltanto progetti preconfezionati. Stiamo studiando questo modello anche con l’aiuto di altri centri per le vittime che già esistono e sono operanti; ho anche invitato una decina di uffici in Italia a unirsi in un coordinamento che è già partito e a cui tutti hanno aderito, per ragionare sull’importanza di trovare linguaggi comuni e rinforzare quest’approccio generalista cercando insieme di affrontare le aree problematiche e risolverle. Secondo me oggi il problema è che tante iniziative ci sono ma comunicano poco tra loro».
Dove opera l’associazione?
«Abbiamo un respiro nazionale. abbiamo aperto un centro a Viterbo presso la sede della Provincia, abbiamo un centro a Roma dove c’è anche la sede legale, abbiamo un centro a Palermo presso il centro diaconale La Noce, proprio per via della condivisione con gli evangelici di queste tematiche ancora innovative e altamente importanti. Insieme allo sportello vittime abbiamo pure gli sportelli di giustizia riparativa e accogliamo tutte le tipologie di conflitti. In virtù della mia esperienza, abbiamo già una serie di casi inviati dall’amministrazione penitenziaria con cui ho dei protocolli già sottoscritti, sia nella regione Lazio che nella regione Sicilia. Oltre a queste intese ho appena firmato il protocollo col comune di Palermo per concorrere, insieme alle altre realtà già presenti sul territorio, alla diffusione di una cultura di una comunità riparatoria dove ogni cittadino diventa soggetto di politiche di pace».
Foto via Pixabay
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