Aborti, violenze e lager: così si paga il secondo figlio

img-_innerArtFb-_re2_13Il 25 settembre compirà 35 anni la famigerata legge cinese del “figlio unico” che dal 1980 impone alle coppie di procreare una solta volta, imponendo l’aborto di Stato e pene aggiuntive severissime, pecuniarie e fisiche, a chi sgarra.

E quasi a sottolineare la ricorrenza scoppia il caso di Chen (nome fittizio), la donna di 41 anni che nella provincia dello Yunnan aspetta un secondo figlio “illegale”. È una storia piena di orrore. Alla nascita del piccolo “indesiderato” manca infatti davvero poco; Chen è all’ottavo mese di gravidanza. Adesso però dice «di sentirsi obbligata ad abortire» perché ha paura delle conseguenze (clicca qui). Suo marito Qi (altro nome fittizio) è un impiegato della polizia locale; se il suo secondo figlio nascerà, come minimo perderà il lavoro.

La storia delle vessazioni cui da decenni vanno incontro le coppie che decidono di disobbedire alla legge abortista cinese è, infatti, lunga e triste. Chen e Qi la conoscono bene. Violenze fisiche alle madri, di norma pure alle loro famiglie di origine, spesso anche ai loro mariti, e come se non bastasse, multe astronomiche che possono arrivare anche a 10 volte quel che un impiegato cinese guadagna mediamente in un anno. Per questo sono risibili le parole del funzionario locale del Dipartimento per la Pianificazione familiare, Wen Xueping, che ha escluso che la coppia possa essere costretta ad abortire, accampando i gravi rischi per la sua salute che un tale intervento al settimo mese di gravidanza può comportare. Parlando, infatti, di «forti conseguenze», ha detto lo stesso quel che doveva e voleva dire. Chen sa benissimo che, oltre al marito, il lavoro lo potrebbe perdere pure lei. Ed è evidente, per quanto raccapricciante, che Chen e Qui possano così finire per perdere la speranza in un contesto dove la vita non vale davvero più nulla, la famiglia è stata completamente sfigurata e le persone abbruttite al punto di non sapere più distinguere il bene dal male.

Del resto Chen oggi ha paura proprio di suo marito, il padre della creatura che porta in grembo. Leimagari il piccolo lo porterebbe pure alla nascita, ma se invece fosse Qi a cedere per primo decidendo che è meglio abortire il secondo figlio in modo da poter sfamare il primo?  È una vera tragedia, che nonostante le molte parole dette al vento negli ultimi anni sul tema, conferma il persistere della politica cinese del “figlio unico”. Reggie Littlejohn, presidente della battagliera Women’s Rights Without Frontiers (Wrwf) (clicca qui), spiega infatti che il sistema è stato solo un po’ allentato e oggi consente ad alcune coppie di avere un secondo figlio. Ma poi basta. E comunque, se nelle aree urbane le coppie hanno fratelli o sorelle sia lei sia lui, l’obbligo del figlio unico permane. Se le donne di coppie così restano incinte senza il Permesso di nascita rilasciato dallo Stato (sic), l’aborto scatta obbligatorio.

Quando poi i funzionari della pianificazione familiare dicono a Chen e Qi che non li costringerannoall’aborto in ragione dell’avanzato stato di gravidanza di lei mentono. Il 12 giugno 2012 il Wrwf documentò con immagini terribili l’aborto praticato il 2 giugno precedente a una ragazza di 22 anni del piccolo villaggio di Yuping, nel circondario di Zeng Jia, provincia di Shanxi: Feng Jianmei, incinta di sette mesi, colpevole di volere un secondo figlio oltre a quello già avuto nel 2007  (clicca qui). I funzionari della Pianificazione familiare avevano chiesto alla sua famiglia una multa di più di 4mila euro di allora, cioè più di tre anni di paga, ma poi, vista la mal parata, l’avevano picchiata, deportata e, riacciuffatala dopo un estremo tentativo di fuga, internata nell’ospedale Zhenping di Ankang dove le estorsero con la forza una impronta digitale in calce al documento di consenso all’aborto. Il piccolo nel suo grembo fu avvelenato con un’iniezione.

Feng fu fotografata esausta nel sozzo letto di ospedale con il corpicino del suo piccolo abortito lì accanto (clicca qui). Per di più suo marito, Deng Jiyuan, 29 anni, sparì qualche giorno dalla circolazione dopo essere stato accusato di “tradimento” per avere parlato della cosa ai media stranieri (clicca qui). Picchiato, al terzo tentativo di fuga riuscì a scappare, senza però riuscire a liberare la moglie che a Zhenping restava come una carcerata (clicca qui). Di fronte allo scalpore della notizia, che fece il giro del mondo e scatenò interrogazioni internazionali, il governo risarcì la coppia, licenziò qualche funzionario e chiese scusa. Ma meno di un mese dopo ripeté il macabro rito su Pan Chunyan (clicca qui), una trentenne di Daji, nel Fujian, costretta ad abortire sempre al settimo mese perché già madre di ben due figli. Pan e il marito Wu Liangjie erano riusciti a pagare la multa per la gravidanza non autorizzata, ma la donna venne lo stesso deportata e richiusa con altre donne incinte pronte all’aborto. La multa le fu notificata ancora, aumentata.

Pagata pure questa, Pan è stata ugualmente presa a forza da otto funzionari governativi, ospedalizzata e costretta all’aborto sempre con una iniezione letale per il feto (clicca qui). Nel settembre successivo, terzo caso identico ma questa volta finito bene. Nella provincia dell’Hunan, Cao Ruyi, 37 anni, incinta di sette mesi, ha salvato la creatura che portava in grembo accettando il licenziamento in tronco del marito Li Fu (clicca qui). Era già stata internata in ospedale, il marito era già stato come di prassi picchiato, ma con mezzi di fortuna la donna riuscì a comunicare con il mondo esterno che, mobilitatosi, le salvò il piccolo poi venuto alla luce con il nome di Li Dahai (clicca qui). Con pratiche così la Cina ha impedito la nascita di centinaia di milioni di bambini, 400 secondo una stima ferma però del 2011 (clicca qui). È la legge. Compie tre decenni e mezzo. Eccola qui la violenza sulle donne.

di Marco Respinti | Lanuovabq.it

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