Un boss della mafia siciliana, per un lungo periodo ai vertici di Cosa Nostra in quanto capo della provincia di Agrigento, e da 5 anni in carcere al 41 bis, inizia un personale percorso di ricerca spirituale. La vicenda, di per sé di scarso interesse, ne assume scoprendo la confessione abbracciata, quella valdese, e le relative difficoltà di ordine pratico che tale scelta reca.
La notizia è diventata di pubblico dominio quando il detenuto ha presentato un procedimento formale per sollecitare il diritto all’assistenza religiosa che ritiene gli sia sostanzialmente negata con motivazioni e pretesti futili.
Qui si innestano ragionamenti più ampi relativi ai due pesi e alle due misure che la burocrazia e la consuetudine (male ancora peggiore del primo se possibile) applicano nel nostro Paese, si riferiscano essi all’egemone maggioranza cattolica o a tutte le altre confessioni minoritarie.
Formalmente secondo le singole Intese tutti i ministri di culto hanno eguale diritto a fornire assistenza spirituale in carcere ai richiedenti, previa autorizzazione del responsabile della struttura, che altro non dovrebbe fare se non accertare le generalità di chi sta per entrare nell’istituto. Ma in un caso ciò è molto semplice e lineare, mentre in tutti gli altri diventa un percorso ad ostacoli, fra impedimenti improvvisi, rinvii non comunicati, attese lunghissime.
«La legge prevede lo stesso trattamento per tutti ma così non è», esordisce il pastore Jean-Félix Kamba Nzolo, che in quanto referente della sede pastorale di Verbania era fra i più prossimi al carcere di Novara in cui si trova il detenuto, ed ha offerto la propria disponibilità a seguirne il percorso spirituale.
La storia intanto: Giuseppe Falsone, classe 1970, nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia, eredita il dominio della sua famiglia mafiosa nell’agrigentino quando ha soltanto 21 anni, dopo la morte del padre e del fratello maggiore in un agguato. Viene arrestato a Marsiglia nel 2010 dopo vent’anni all’interno dell’onorata società, una latitanza di 11 anni e un intervento chirurgico per modificare i lineamenti del viso. In quel momento è ai vertici del sodalizio mafioso, indicato con il numero 28 nei pizzini cifrati di Bernardo Provenzano, suo grande sponsor.
All’interno del carcere di Novara, il carcere duro, si avvicina al protestantesimo a seguito della lettura di alcuni testi presenti nella libreria del penitenziario. Da qui la richiesta di poter ricevere le visite di un ministro di culto evangelico. «Fin dal primo giorno sono iniziate le difficoltà – racconta il pastore – perché in questi luoghi ognuno usa le regole che più gli garbano: per esempio mi è toccato sostenere un colloquio con la direttrice sebbene la legge non lo preveda». La sezione del 41 bis è ovviamente assai più restrittiva rispetto alle altre, «ma gli intoppi in cui mi sono imbattuto vanno al di là delle normali prescrizioni. Da novembre 2011 ho iniziato a fare avanti e indietro fra Verbania e Novara una volta al mese, ma spesso non riuscivo ad incontrare il detenuto, ogni volta con motivazioni differenti: dal direttore di reparto che ritiene non opportuna la visita quella settimana, a disposizioni ad hoc provenienti direttamente dal Dipartimento di amministrazione giudiziaria di Roma che bloccavano il tutto».
Ma non è così per tutti: « Dobbiamo sottolineare una cosa: il doppio binario. In quel carcere il cappellano entra da mattina a sera, incontra ergastolani, e se vuole li ha tutti insieme attorno ad un tavolo, mentre quando vado io non posso fare nulla; un collega di ora d’aria di Falsone avrebbe voluto incontrarmi ma io non posso avere un colloquio con più di una persona per volta. Io quando entravo venivo sempre perquisito, anche più volte, e avevo preso abitudine di annunciarmi con un fax il giorno innanzi così da avvertire del mio arrivo nella speranza di evitare patetiche scuse, mentre il prete va e viene come meglio crede. La recente visita di papa Francesco alla comunità valdese è stata l’occasione per un pastore battista di scrivere all’amministrazione del carcere di Novara per dire fra l’ironico e l’arguto “Ecco, questi siamo noi, ora ci riconoscete?”».
Le visite così diradate perdono di senso, per cui ci si vorrebbe rifugiare almeno nella parola scritta, sia essa sotto forma di libri o di lettere, per sopperire alla lacuna della relazione umana: «Ma anche su questo fronte la situazione non è migliore. Ad ogni visita Falsone mi chiedeva un libro differente ma questo gli veniva consegnato come minimo tre mesi dopo, perché passava prima al vaglio della censura. Le lettere venivano anche consegnate con ritardi di mesi – è arrivato a scrivermi anche quattro volte alla settimana per colmare il vuoto dell’assenza fisica – e le mie subivano dei tagli dalla censura secondo chissà quali misteriosi criteri». E ad un certo punto, richiamando le solite “disposizioni dall’alto” i libri non sono più potuti entrare nel carcere.
Dal novembre 2014 poi si alza un muro di gomma: «Da quel momento non ho potuto più visitarlo. La direttrice risponde di suo pugno alla mia richiesta di colloquio e mi dice che il Dap di Roma ha sospeso le visite al detenuto fino a data da stabilirsi. Da allora silenzio su tutto il fronte, per cui abbiamo comunicato solo via lettera, e con molta fatica. Ora un avvocato della nostra chiesa ha preso in mano la situazione per segnalare i reclami del detenuto che rivendica i suoi diritti». Nel mentre il tempo passa inesorabile, da un paio di mesi il pastore Nzolo è stato destinato ad una nuova sede in Toscana, per cui è probabile che il detenuto debba fare riferimento ad un nuovo ministro di culto. Nuovo giro, vecchi problemi. Due pesi due misure, un ritornello ormai stantio ma evidentemente ancora molto attuale.
Claudio Geymonat
da: Riforma.it/
Foto di ErikaWittlieb, Licenza: CC0 Public Domain, by Pixabay
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