Si è rifiutata di abortire: è stata licenziata. Ed ha ottenuto giustizia solo in tribunale.
Questa è la storia di Teri Cumlin (nella foto), una 22enne scozzese con un lavoro come responsabile in una Ong dedita alla raccolta fondi per varie organizzazioni di beneficenza, la Engage. Era già madre di una bimba di 4 anni, Tierney. Tutto bene, finché nel luglio scorso non ha comunicato al suo direttore, Mark Robertson, di attendere un secondo figlio. Provocando una reazione, a dir poco, esplosiva: «Ha cominciato ad urlarmi che sono stata una stupida, che era tutta e solo colpa mia – ha dichiarato la giovane in un’intervista al Daily Mail – Poi mi ha detto che, se volevo far carriera, dovevo por termine alla gravidanza. Gli ho risposto che non ne avevo alcuna intenzione». Oltre tutto, Cumlin aveva appena sofferto il lutto di un aborto spontaneo.
Quel rifiuto le è costato caro. Robertson ha iniziato ad angariarla, tormentarla, umiliarla, anche davanti ai colleghi. Non ha perso occasione per criticare il suo lavoro, per lamentarsi delle sue “frequenti” pause alla toilette, del fatto che bevesse troppo; in piena estate la piazzava nei punti dell’ufficio più caldi ed esposti al sole oppure la inviava agli eventi all’aperto, biasimandola qualora osasse lamentarsi. Poi sono arrivati i richiami per cattiva condotta, la retrocessione, la sospensione e, dopo una settimana, il licenziamento, giunto due mesi prima del parto, perché «inabile al lavoro». A nulla sono servite le lacrime della donna. Che ha trascorso mesi orribili. Senza un soldo e con la paura di perdere anche la casa nel distretto di Maryhill, a Glasgow. Durante la gravidanza, considerata “a rischio”, ha sofferto molto di pressione, troppo alta, a causa delle condizioni di stress che era costretta a sopportare. Ha rischiato il taglio cesareo d’emergenza, a febbraio. Quando suo figlio Thomas è nato, è rimasto in terapia intensiva per una settimana. Oggi è uno splendido bambino di 4 mesi.
Ora il Tribunale del lavoro ha dato ragione alla donna e condannato l’Engage a pagarle un risarcimento di 12 mila sterline (circa 17 mila euro) per licenziamento ingiustificato e discriminazione sessuale. A lasciar perplesso Paul Tully, della Society for the Protection of Unborn Children – intervistato dall’agenzia LifeSiteNews -, è il fatto che l’intera vicenda sia stata tuttavia considerata alla stregua di un banale caso di molestie sessuali. E’ stato molto di più, è stato peggio. Qui la posta in gioco, oltre all’equilibrio ed alla serenità della giovane, era la vita di suo figlio, Thomas. Che qualcuno voleva morto. Ma la vicenda non è ancora finita. Può sembrare incredibile, ma… l’azienda Engage ha preannunciato ricorso contro la sentenza.
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