Nelle famiglie di fede evangelica si usa mettere i nomi di personaggi della Bibbia. È per questo che mi porto quello di un grande profeta di cui narra l’Antico Testamento, Elia.
Sono l’ultimo di otto. Mia mamma si ammalò di un forte esaurimento nervoso mentre io ancora mi agitavo nel suo grembo. Quando nacqui, non era già più nelle condizioni di prendersi cura di me, così lo fece mia sorella più grande. Ma quando partì per l’America, dopo aver preso marito, per me era ancora troppo presto.
Avevo solo 11 anni ed ero bramoso di affetto materno. Mi sentii abbandonato e terribilmente insicuro, mi parve che il mondo con tutto il suo peso gravasse sulle mie spalle ancora troppa gracili. Mi sentivo schiacciato.
Un profondo senso di ribellione contro tutti e contro tutto cominciò ad albergare nel mio cuore. Non davo ascolto a mio padre e più lui cercava di correggermi, più reagivo con forza. C’era in me un fuoco di risentimento verso la vita che mi induceva a fare tutto il contrario di ogni cosa giusta.
Avevo solo 15 anni quando divenni capo di una banda di ragazzini del mio quartiere. Facevamo molte bravate e ce ne vantavamo. Poi venne la stagione delle discoteche, delle ragazze, del sesso e dell’alcol, tanto. Mi ubriacavo spesso.
Immancabile giunse l’appuntamento con la droga: dapprima lo spinello, poi gli allucinogeni e l’eroina. Il mio cervello era in frantumi almeno quanto la mia anima. La cocaina, infine, distrusse quel poco che rimaneva della mia integrità di uomo. L’odio per il mondo e per la vita era ormai divenuto odio contro me stesso. In fondo non facevo altro che distruggermi, dose dopo dose, buco dopo buco. Ma cercavo ancora, seppure in maniera maldestra, di mascherare il disastro che ero divenuto.
Giorno dopo giorno bruciavo la terra attorno a me. Credo di aver ingannato tutti, amici, parenti, familiari e quindi cresceva a dismisura tutto intorno il deserto. A questo punto la droga mi serviva per sentirmi in quello stato di torpore che ti impedisce di pensare e di riconoscerti per quello che sei diventato, una larva. Da fanciullo educato alla fede cristiana, ero divenuto un adoratore del diavolo, di un dio che chiamavo eroina. Ero a meno di un metro dall’inferno.
Oggi riconosco i grandi sforzi fatti da mio padre per aiutarmi, dissuadermi, correggermi, amarmi. Ma a nulla valsero. Non so più in quante comunità terapeutiche ho soggiornato e da quante sono scappato. Ero in un vicolo cieco. Non ero più padrone di me. Più che l’alcol e la droga, il vero problema, comunque, ero io stesso.
La droga aveva, nei lunghi anni di abuso, corroso ogni cosa. Non sapevo più gioire e non sapevo più piangere. I momenti di lucidità erano talmente insopportabili che diverse volte ho tentato il suicidio. Oggi so che qualcuno mi proteggeva. Mi somministravo la morte a piccole dosi quotidiane, eppure ero terrorizzato dalla morte. Diverse volte sono stato in coma per overdose.
Non saprei dire come, né saprei ripetere le parole, ma nel mio cuore doveva esserci un grido soffocato di aiuto simile a una preghiera. “Ti prego, soccorrimi Signore. Donami la pace e fammi provare quella gioia di vivere che mi é sconosciuta!”.
Dio rispose, e lo fece attraverso mio padre. Lui non aveva mai smesso di pregare per me. Fu lui a propormi di entrare in una comunità di recupero che aveva una forte enfasi di fede cristiana. “Papà portami pure in questo centro. Per me soltanto Dio, se esiste, può fare qualcosa.” Qui conobbi non solo una comunità di ragazzi col mio stesso problema, ma anche una comunità spirituale, di persone sinceramente convinte dell’aiuto di Dio. Ero attratto da quella forte tensione spirituale ma non capivo fino in fondo da dove venisse. Avevo fede, ma ero ancora incredulo. Qualcuno a cui mi rivolsi mi parlò con semplicità e convinzione di Gesù. “Quello che non puoi fare con le tue forze lo può Gesù per te!”.
Volevo crederci, dovevo crederci. Cominciai una lunga, reiterata e ostinata preghiera. Volevo che operasse anche in me come in quei ragazzi. Stentavo a credere che avrebbe potuto rimettere assieme i pezzi della mia vita. Fu così, forse per la prima volta, che mi resi conto del male che avevo fatto a tante altre persone. Molti avevano patito a causa mia. Ma questo pensiero non mi distruggeva. La consapevolezza del peccato cresceva di pari passo con quella della Grazia. Dio mi voleva bene. Non si era stancato di me. Aveva continuato ad amarmi anche quando non mi amavo neppure io stesso. È stato per la Sua vicinanza se ho potuto sopportare la paralisi delle crisi di astinenza. Lui, soltanto Lui era capace di spegnere il fuoco che ardeva nel mio corpo, che bruciava le vene mentre le ossa erano pesanti come il piombo. Dio ha agito, certo, ma lo ha fatto attraverso molti di quei ragazzi che erano passati per quella stessa angusta strada. Erano per me come una schiera di angeli mandati a soccorrermi, giorno e notte.
La fede dei primi passi cominciò a diventare cammino quotidiano nell’ascolto della Parola, nella preghiera, nella meditazione personale. Così l’antica storia di quel figlio, di cui narra la parabola, che parte per un lungo viaggio nel quale si perde, acquistava per me un significato biografico. Dio era proprio quel padre paziente e amorevole rimasto alla finestra ad aspettare il mio ritorno.
Da allora la presenza spirituale del Signore ha preso a medicare e curare le mie piaghe. La lunga malattia dell’anima aveva lasciato ormai posto alla stagione della convalescenza e della piena guarigione. Nessun medico e nessuno psichiatra aveva potuto affrancarmi da quei 22 anni di vita dissoluta vissuta alla mercé della droga. Il Signore l’ha fatto. L’ha potuto per mezzo del Suo amore. L’ha compiuto mettendo in me la fede. L’ha realizzato donandomi dei fratelli. Ed oggi il più grande desiderio che ho nel cuore è quello di sapermi nelle Sue mani uno strumento di aiuto per tanti altri ragazzi come me. C’è di nuovo un fuoco dentro di me, ma questa volta non mi distrugge!
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