Non solo barconi, profughi e sfollati sono 38 milioni

img-_innerArtFb-_sfol2Ogni giorno qualcuno nel mondo esce di casa per l’ultima volta e intraprende la via dell’emigrazione clandestina. Quasi sempre si tratta di una decisione maturata nel corso di mesi, talvolta di anni. Richiede, infatti, contatti, accordi, contrattazioni; e soldi, tanti soldi. In Africa il viaggio inizia di solito da una città. La popolazione rurale, infatti, prima emigra nei centri urbani e di lì, in seguito, parte eventualmente per altri Stati e altri Continenti.

A convincere all’espatrio affidandosi ai trafficanti, sono illusioni,disinformazione e fiducia mal riposta più che la disperazione per condizioni di economiche difficili e il timore per la propria vita: si ignorano le difficoltà, la fatica e i pericoli delle rotte migratorie, le insidie, la violenza e la spietata brutalità dei trafficanti. Né si è preparati alle lunghe soste prima di iniziare ogni nuova tappa di un percorso lungo di solito migliaia di chilometri: soste che possono durare mesi per chi non ha pagato per tutto il trasporto in anticipo e, a ogni tappa, si deve guadagnare in qualche modo l’importo richiesto per quella successiva. Basterebbe leggere le interviste fatte dai giornalisti a Gao, nel Mali, e in altri punti di sosta per saperlo, ma chi emigra clandestinamente non ascolta la Bbc.

L’immagine talvolta evocata per spiegare lo sbarco clandestino sulle coste europee è quella di unafamiglia spaventata a morte da una detonazione o da altri improvvisi segnali di pericolo che, presa dal panico, senza attardarsi a cercare documenti e altro, si da alla fuga finendo quindi inevitabilmente, priva di passaporto, sulle imbarcazioni dei trafficanti. Non è così che partono gli emigranti irregolari diretti in Europa. Ma è vero che non passa giorno senza che in Africa, e non solo, migliaia di persone e di famiglie siano costrette a mettersi in salvo più o meno in quel modo. Incalzate da bande armate, gruppi antigovernativi, terroristi, milizie governative, squadre di razziatori appartenenti a etnie avversarie, cercano salvezza nei dintorni del loro villaggio o del loro quartiere attaccato, nella boscaglia o in foresta, in attesa che il pericolo passi, che i miliziani finiscano di saccheggiare, distruggere e abusare di chi non è riuscito a scappare in tempo e si spostino altrove. Possono passare poche ore, soltanto una notte, pochi giorni, trascorsi all’aperto, senza cibo né riparo. Ma a volte i giorni diventano settimane e mesi. Nel Darfur, in guerra dal 2003, sono diventati anni.

l protrarsi dell’allontanamento forzato da casa costringe dapprima a cercare assistenza presso amici, parentii, parrocchie. Quando sono grandi quantità di persone ad aver bisogno di aiuto, interviene l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati creando campi di accoglienza. Quelli che, costretti a lasciare la loro residenza, cercano scampo entro i confini nazionali si chiamano sfollati o profughi interni. Nel 2014, a livello mondiale, hanno raggiunto i 38 milioni. Lo rivela un rapporto intitolato “Indagine generale 2015: gli sfollati a causa di conflitti e violenze”,  presentato il 6 maggio a Ginevra dal Centro di monitoraggio sugli sfollati. È un record, «il peggior dato dell’ultima generazione», ha commentato Jan Egeland, segretario generale del Norvegian Refugee Council, «a dimostrazione del nostro completo fallimento nella protezione di civili innocenti».  Nel 2014 i nuovi sfollati sono stati 11 milioni, in media 30.000 al giorno, 21 ogni minuto, il 60% dei quali residenti in Iraq, Sud Sudan, Siria, Repubblica Democratica del Congo e Nigeria.

Il Paese con il maggior numero di sfollati attualmente è la Siria, con 7,6 milioni, pari al 40% dellapopolazione. Nel 90% dei 60 Stati e territori considerati vivono persone sfollate da dieci anni e più: conseguenza della persistente insicurezza nei loro luoghi di origine, ma anche del fatto che i profughi, quasi tutti, non perdono, anche a distanza di tanto tempo, il desiderio e la speranza di poter tornare un giorno a casa, o a quel che ne rimane, piuttosto che rassegnarsi e andarsene per sempre; e si allontanano il meno possibile. Se agli sfollati si aggiungono i profughi all’estero, il numero di persone forzatamente lontane da casa raggiunge la cifra di 51,2 milioni: anche questo è un primato negativo mai più raggiunto dalla Seconda guerra mondiale (e che non tiene conto dei rifugiati palestinesi). Dall’inizio del 2015 sono 1,8 milioni gli iracheni messi in fuga dallo Stato Islamico. Il campo profughi forse più grande del mondo, di sicuro dell’Africa, è quello di Dadaab, in Kenya, al confine con la Somalia, creato nel 1991 allo scoppio della guerra civile somala, dopo il crollo del regime di Siad Barre. Nato per ospitare circa 90.000 persone, con gli anni è stato ampliato ed è arrivato a riceverne fino a 600.000.

Quando nel 2012 la Somalia è stata colpita da una grave carestia, ogni giorno arrivavano al campo una media di mille somali. Tra gli ospiti della struttura si contano quasi 10.000 rifugiati di terza generazione, vale a dire nati a Dadaab da genitori anch’essi a loro volta nati nel campo.

di Anna Bono

da: lanuovabq.it/

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