Entrare nel grande tempio del rito “bio” e scoprire che nessuno qui è venuto per allungare i tempi sull’impatto zero, ma per piazzare prodotti tipici e pacchetti turistici.
Premetto che sono un patriota e spero che Expo porti fortuna, vagonate di turisti, dané, un gran giro di ottimi e plurimi affari, a Milano e all’Italia intera. Giuro che non voglio affamare, ma “Nutrire il pianeta”. Non sono per la tristanzuolità dilagante e, anzi, aspiro con tutte le fibre del mio essere a “Energia per la vita”. Però, in questo abbrivio di Expo 2015, chi per un verso, chi per l’altro, mi sembra stia dando un po’ i numeri. 250 mila presenti all’inaugurazione. Boom. «Ventimila cittadini con guanti e spugne per pulire Milano». Ma dai. «Mattarella ammirato». E vabbè. «Pisapia: ribellione contro i soprusi». Ma se li avevi appena difesi i centri sociali, un pugno di vecchietti fermi agli anni Settanta e un mazzo di figli di papà. Black bloc? E “de che”, se li conoscono tutti quel centinaio del parco giochi che si travestono e si svestono sotto la protezione del corteo?
A proposito. Avete visto l’incappucciato divenuto famoso ai microfoni Tgcom e di cui il padre ha detto, «non è un violento, è solo un pirla»? Intanto è difficile comprendere la ragione di un microfono messo sotto il naso di uno così allampanato che per articolare un pensiero e aprir bocca avrebbe avuto bisogno di un paio di mesi di ossigenazione mentale. «Io ho guardato soltanto. Però, volevo avere anch’io una mazza per spaccare tutto». E il giornalista gli domanda pure, «ma bruciare una banca non è esagerato?». Oh yes. «Ma che cazzo, se non bruci una banca che è il simbolo della ricchezza, minchia! Ci sta!». E il giornalista fantastico, «per favore, non dica le parolacce». E il mancato spaccatutto ridiventa un puffo pirlone, «ah sì, cioè scusa, non volevo esprimermi così». Questa sarebbe la fauna e questo il circo mediatico. Resta che lo spettacolo delle devastazioni in un paio di vie centralissime di Milano non è stato affatto gradevole. Sia per l’automobilista Luigi che Franco Bechis ha rappresentato come lettore di Libero che rischiando di far da torcia umana ha salvato dalle molotov la sua Honda Civic del 1997. Sia, tanto più, per le frotte di stranieri che al botteghino dicono aver già acquistato 11 milioni di biglietti per visitare Expo.
Adesso io non voglio passare per “disfattista”. Né essere accusato di “intelligenza col nemico”. Però nell’ultimo week-end la propaganda alleata le ha sparate un po’ grosse. Anche a me che l’Expo l’ho visitato col mio pargolo Giovanni, 13 anni. E che volevamo scrivere un pezzo propagandistico alleato (“L’esposizione vista con gli occhi di un bambino”) e ci è toccato scarpinare, domenica 3 maggio, avanti e indietro per il chilometro e mezzo del decumano e per trecentocinquanta metri del cardo, in una giornata uggiosa, piovigginosa, grigia, senza neanche un rivolo di folla ai cancelli. Attenzione, “l’albero della vita” va gustato esclusivamente di sera, quando è bello illuminato come un albero di Natale. Mentre di giorno, specie se bigio come il nostro, l’Albero è pochezza (giusto per non dire altro in rima) che ti stringe il cuore e lascia pensare che facevano più bella figura se ci mettevano la torre Tim di Rozzano. A occhio (che mi son fatto ai Meeting di Rimini) ci saranno stati massimo 10 mila visitatori il 3 maggio. Ma una cosa alla volta.
Usa la metro, non i parcheggi
Dunque, il 19 aprile scorso siamo stati invitati alla inaugurazione della “Nuova Casa Massonica di Milano”. Pardon. Ho preso il file sbagliato. Dicevo, il 29 aprile scorso siamo stati invitati a metterci in contatto con gli uffici stampa di Expo per ottenere un accredito stampa. Voi direte, bel portoghese, mentre noi comuni cittadini a pagare minimo 35 euro. Un momento. Ho la spiega. A parte il fatto che l’accredito stampa è di prassi, noi non visitiamo una manifestazione, noi combattiamo per la patria, diamo i numeri ed esaltiamo l’opera che tanto sacrificio costò alla Nazione (e al diavolo i gufi, come dice Matteo). Punto secondo: vuoi mettere cosa costa a Expo regalare a Tempi un biglietto per scrivere tutto il bene possibile a soli 32 euro, quando Expo ha fatto colare il grasso di un «budget da 55 milioni di euro, ma solo 5 alle testate straniere – scriveva ancora a novembre il Fatto quotidiano – di cui tracciabili al momento ne risultano solo 12,4 milioni, cioè il 22 per cento circa»? Voglio dire che per 2 milioni di euro, quanti ne ha presi Fondazione Feltrinelli per articolare in compagnia del filosofo Salvatore Veca un profondo scientifico pensiero e una profondissima etica Carta di Milano, la Fondazione Tempi ci faceva l’Enciclopedia Treccani. Ecco, un biglietto a Tempi no (ma tra sei mesi sarà bello spulciare il bilancio e vedere se e come i nostri valenti supercommissari hanno fatto caso ai soldi che sono girati, e non soltanto in ambito laterizi&costruzioni).
Comunque sia, siamo ancora qui in attesa di un gentile riscontro da parte di Expo. Saremo mica svizzeri o ungheresi, noi qui che non ci si è filati nessuno. Super poteri a Giuseppe Sala. Il leone che appena la Repubblica diede (per quindici giorni di fila) di «convegno omofobo» a un incontro sulla famiglia organizzato da Regione Lombardia, s’è subito allineato: «Non abbiamo mai autorizzato l’utilizzo del logo di Expo per quel convegno. Abbiamo chiesto a Regione di togliere il logo». Perbacco, commissario unico Sala, a un convegno sulla famiglia gli volevi togliere il logo che ti costava niente e alla Repubblica (oh yes, “delle idee”) gli dai l’Expo da sponsor e logo fisso a un costo secretato, epperò, ha scritto il ben informato Gianni Barbacetto, «una fonte interna al gruppo Espresso-Repubblica fa sapere che i principali sponsor dell’iniziativa pagano attorno ai 500 mila euro»? Cinquecentomila cocuzze (secretate) per dare il logo alla romana Rep e neanche un buffetto alla stampa milanese proletaria? Vabbè, provo l’acquisto internet. Purtroppo anche qui il sistema manipulito mi dà buca. Impallato. E siamo al 30 aprile. Ho ancora lo sconto. Domani, 1 maggio, giorno di Renzi e delle Frecce tricolore, i biglietti saliranno a minimo 35 euro. Mi tocca correre al primo rivenditore autorizzato. Via Melchiorre Gioia 139, agenzia turistica cinese. È un attimo. E sono 41 euro per me e il figliolo.
Divinus Halitus?
Devo però ammettere che il viaggio Monza-Rho Fiera è stato meraviglioso (lasciate perdere i parcheggi in fiera, sono 12 euro minimo). Lascio la Micra a una fermata di metro rossa e con l’efficiente mezzo Atm alle 10 in punto siamo all’entrata ovest. Nessuna fila ai metal detector. Lunga passeggiata sul cavalcavia. E infine eccoci al padiglione zero, “cattedrale” che vorrebbe informare di sé lo spirito di questa edizione Expo. Lì per lì parrebbe una di quelle chiese bruttine di periferia. Un immenso hangar ingraziosito dalla fattura in legno (frutto di riciclo o di disboscamento di “madre terra?”).
E qui lascio descrivere al Corriere della Sera, che con quel che ha incassato in inserzioni Expo ha spiegato benissimo la cosa divina firmata dal direttore artistico Davide Rampello. «Si staglia appena superati i tornelli dell’ingresso di Expo 2015: ti accoglie la grande scritta Divinus Halitus Terrae e il simbolo di tutto l’allestimento, una piccolissima terracotta proveniente dal museo egizio, la prima immagine dell’uomo al centro del mondo che risale a 6.500 anni fa, visibile all’interno del padiglione. Sono 12 stanze con il principale scopo di trasmettere emozioni. E l’emozione girando per il padiglione zero è garantita. A dare il benvenuto il film di Martone, Pastorale cilentana. Sedici minuti senza una parola ma con un audio che dice tutto per raccontare sul più grande schermo del mondo (21×50) la caccia, la pesca, l’agricoltura e l’allevamento attraverso le storie recuperate nell’archivio del mondo, la memoria. Hanno lavorato i migliori ebanisti per realizzare questo archivio che è visibile ai lati dello schermo, un’infinità di cassettini in legno per contenere tutto quello che siamo, da dove veniamo. Rampello ha scritto il sogno del padiglione zero nell’agosto 2012 e oggi apre al pubblico esattamente come l’ha concepito e cullato giorno dopo giorno. C’è la casa con gli ortaggi divisi per colore, ci sono gli animali che faranno la gioia dei bambini. E ci sono più di 500 pesci appesi al soffitto: volano. Ci si chiede il perché ma basta osservare per trovare la risposta: sembra proprio una danza nell’acqua. In ogni sala ha lavorato l’eccellenza dell’Italia». Eccetera. Perché poi interviene il copyright.
Ma ecco, come per miracolo, mentre ti immagini la solfa della Divina Natura rimestata in ognuno dei 160 o quanti sono i padiglioni, capisci subito, a cominciare dallo strepitoso palazzo dell’Angola, che qui il mondo è venuto non a menare il torrone sulla Terra Madre. Ma possibilmente a piazzare prodotti e pacchetti turistici. Infatti Expo 2015, al netto delle migliaia di metri quadrati di commerciale (Eataly, Coca Cola, Cir, Vinitaly, Ferrero, Baci Perugina, Corriere della Sera, New Holland eccetera), si rivela l’Eurodisney 2015 degli enti turistici internazionali. Una goduria per gli occhi dei bambini e (un po’ meno) per le tasche dei visitatori (pavillon Brasile: un caffè 2 euro, caipirinha 10). Fatevi bene i conti e tenetevi stretti a McDonald’s (menù completo per due 17,90). #Staisereno.
Una giornata Expo (ore 10-19) non ti costerà meno di sessanta euro (viaggio, gadget e pranzo non da McDonald’s esclusi). Inoltre, valutate bene l’impresa, lo dico a voi giovani e giovanissimi lombardi: se lo visitate tra le 19 e le 23 vi costa solo 5 euro, non troverete code nei padiglioni e vi farete una bella serata in compagnia. Però, sia che cerchiate “cultura”, dunque teatri e spettacoli; sia belle ragazze in qualche ristorantino etnico o a Eataly, il cinquantone in tasca non deve mancare. Altrimenti portatevi la schiscetta e fatevi un giretto equosolidale in quelle specie di container di seconda fila, rispetto ai padiglioni di prima categoria sparsi lungo il decumano, dove sono stati relegati paesi minuscoli come Vanuatu e Timor Est. Ma anche importanti come Myanmar e Venezuela.
Dunque, eravamo al padiglione zero, cattedrale della Divina Terra. Grandi filmati alla National Geographic e grandi illusioni su coltivazioni che sarebbero ecosostenibili se solo non fossero la rappresentazione dello zero virgola di come funziona l’agricoltura nel mondo. Una volta un grande agronomo ci spiegò cosa succederebbe se, poniamo, un bel giorno i cinesi decidessero di mangiare un pollo in più. «Se non ci fossero gli Ogm – ci disse il professor Salamini – si dovrebbe deforestare mezzo pianeta per coltivare quanto basta per dare il pollo in più al cinese».
I piatti dell’Angola
Al padiglione dell’Alito Divino la realtà esiste come in un immaginario agropastorale arcadico. Vanno forte i “gruppi di pastori per una gestione sostenibile dei pascoli della Mongolia”. I boschi di nocciole ecocompatibili della Turchia. Gli uliveti dell’isola di Lesbo. La vite di Lanzarote. Insomma tutto il naif che si può concedere la minoranza della minoranza degli europei ricchi e palestrati. Meglio buttarsi subito sull’Angola e sui suoi piatti di pesce cucinato in tutte le salse. Performance di danze tribali e uomini di colore in carne come non se ne vedono in quelle immagini di Africa al padiglione Santa Sede. Bambini denutriti e pannelli che hanno come parole chiave di lettura del mondo “conflitti-discriminazione-corruzione…”.
«Papà, facciamo un giro in Gran Bretagna?». Preferisco un salto in Colombia, dove trionfano colori, frutta, sole, aria e la schiumosa vita caraibica. Trovo strano che le code più lunghe siano per vedere Emirati Arabi e Germania. Ma non è strano che gli Stati Uniti non se li fili nessuno: hanno portato in fiera solo i cartoni animati di come gli americani usano il barbecue e video in cui Obama e la sua dolce Michelle ci ammaestrano sul futuro democratico del pianeta e l’importanza dell’educazione alimentare per l’infanzia. Occorre schivare gli importuni di Save the Children (che vogliono salvare i bambini, secondo la notizia riportata da Pro-Vita, «collaborando con Planned Parenthood, esortando le donne a fare meno figli e considerando come opzione caldeggiata l’interruzione di gravidanza») e infilarsi nel padiglione di Coca Cola. Del Brasile non c’è granché, tranne l’enorme rete elastica che fa la gioia dei bimbi e il rischio di caviglia distorta alla signora in tacco a spillo.
Dirò che piacevoli sorprese riservano paesi minuscoli e musulmani come Bahrain e, soprattutto Oman. Nel primo trovi una varietà sperticata e ben presentata di alberi e vegetazione impiantati in fazzoletti di deserto. Dell’Oman colpiscono le coltivazioni inerpicate sulla roccia, quella della rosa su tutte. E poi è l’unico paese che ha il coraggio di citare la parola (pare vietatissima a Expo) “Dio”. Sua maestà il sultano Qaboos bin Said insegna che «di tutti i doni con cui Dio ci ha benedetto, l’acqua è il più prezioso». E se l’Iran si è preso uno spazio ragguardevole per un’esibizione non indimenticabile dei prodotti locali, non sorprende l’intelligenza con cui Israele “vende” la “Terra santa alle tre grandi religioni” e – semplice e pura verità – il fatto che sia il paese del mondo che ha piantato più alberi nel proprio fazzolettino di sabbia.
Il laboratorio del silenzio è un’invenzione della concettuale Cekia. Mentre è areato e degustatorio (vodka non so, ma succhi di lampone a iosa) il monumentale padiglione della Russia. Saltato il Kuwait, da McDonald’s ci consigliano di non perderci l’Azerbaigian. Tutti i petroliferi vanno forte. Ma Baku, effettivamente, delizia con tre piani di squisitezze agricole e varietà paesaggistiche.
Cosa avete contro le multinazionali?
Ma che fine ha fatto il famoso messaggio della Divina Terra? Fortunatamente scopri che non c’è un paese in esposizione, tranne l’Italia (Germania e Francia non sappiamo, saltate a piè pari), che non sia venuto a Milano, non per filosofeggiare con l’indiana Vandana Shiva sull’agricoltura bio diversa o bio dinamica o bio-bio, ma per vendere la propria bella immagine e mercanzia di paese perfetto per il turista di massa. Adesso vedo che quelli che avevano lisciato il pelo alla moda cool e chic e green si ritrovano un po’ delusi dai vari Nobel per la fuffa e, appunto, dalla sunnominata Shiva. A cui Il Sole 24 Ore ha giusto destinato un titolo poco confindustriale (“Vandana Shiva sputa nel piatto Expo”), dato che la signora ha testé firmato l’appello antagonista a «non lasciare l’Expo alle multinazionali».
A parte che questa storia delle “multinazionali” è ormai una fregnaccia. A parte che il lavoro lo offrono le multinazionali e non i pascoli della Mongolia. Ma poi, che c’entrano le multinazionali con la festa delle pro loco nazionali? L’India della signora Shiva tra l’altro è assente, ospite di ripiego al padiglioncino Basmati, dedicato per l’appunto alla varietà di riso lungo. Ma poi, come si dovrebbe presentare l’India sull’altare del Divino Biologico, visto che l’agricoltura innovativa e transgenica (già, devono sfamare un miliardo e mezzo di persone, mica il conte Petrin) l’India la pratica su larga scala? E infatti all’appello di Expo mancano anche Australia e Canada, altri due giganti che con Stati Uniti e Cina, pompano Ogm e risparmiano su insetticidi e pesticidi (mentre noi, “no Ogm”, siamo qui a tagliare gli ulivi pugliesi infestati da xylella).
Volete essere nature al 100 per cento? Godetevi l’Austria, che per padiglione ha un boschetto, nebulizzatori d’acqua e tanti pannelli dove il visitatore può scrivere a pennarello bianco la sua bella idea “per salvare l’aria”. Il paese più furbo? Il Giappone. Ti ordinano in coda con la stupenda accoglienza delle belle damigelle nipponiche. Ti fanno gustare il “viaggio verso la diversità armoniosa”. Le risaie che abbattono il riscaldamento globale e le cicogne che popolano le biodiversità. Ti fanno ripetere “Wa”, “armonia”, il più antico nome di quella terra, e riflettere sulla “saggia natura”. Dopo di che, ultima tappa di 9 sale, siedi al ristorante del futuro. Dove illustrano che «cucinare significa maneggiare con criterio». Segue conoscenza del vicino di tavolo e pasto virtuale molto convincente sul fatto che «si ragiona meglio a pancia piena». Infatti, all’uscita c’è il ristorante giapponese che ti aspetta.
Un mondo senza Italia?
Il palazzo Italia sembra uscito da una stampante 3D. Ma fatta la tara all’approccio “famolo strano” (non l’eccellenza esportata in tutto il mondo, ma le 20 statuine di produttori regionali di iper nicchia – quello che fa il vino come si faceva cinquemila anni fa, questa che pianta semi di cereali della preistoria) e l’ideologia catastrofista (che senso ha la sala in cui si tematizza «un mondo senza Italia»? O il video che ripesca l’alluvione di Firenze sotto il titolo “Crescita senza regole”?), il padiglione Italia si fa ammirare per la (iperclassica) celebrazione delle bellezze naturali e artistiche. Di nuovo. Predichi filosofie tantriche, ti posizioni tra gli snob della gente a cui piace la mistica green. E poi, per farti riconoscere, vivaddio, devi vendere il Belpaese dei borghi e dell’arte medievale. La cucina, il buon vino e le multinazionali Nutella, Baci Perugina e Slow Food.
Ho parlato troppo presto? Sì. All’uscita c’è una postazione di militanti ad attenderci. «Svegliatevi! Il vostro cibo è davvero sicuro?». Black bloc? No. Testimoni di Geova.
Luigi Amicone
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