Ecco perché la più incancrenita e sanguinosa fra le rivolte arabe che tanto avevano affascinato il mondo tre anni fa oggi sembra non interessare a nessuno (eppure la materia per l’indignazione internazionale non mancherebbe).
Se quello che l’Arabia Saudita e i suoi alleati arabi hanno fatto in un mese nello Yemen lo avesse fatto Israele a Gaza, le piazze sarebbero affollate di manifestazioni di protesta in mezzo mondo, le ambasciate sotto assedio, le Nazioni Unite in fibrillazione e i canali televisivi internazionali sommersi da filmati dei bombardamenti e immagini delle vittime e dei feriti. In un mese e poco più di bombardamenti destinati a fermare l’avanzata dei ribelli houthi, la coalizione guidata da Riyadh ha causato la morte di almeno mille persone, metà combattenti e metà civili. L’aviazione ha raso al suolo scuole, magazzini di aiuti umanitari di Ong come Oxfam, caseifici, campi profughi, acquedotti, centrali elettriche, centri commerciali, gli uffici di una tv appartenente all’ex presidente Saleh, moschee, fortezze medievali e altri patrimoni archeologici. I civili uccisi erano studenti, operai, sfollati, migranti somali, donne e bambini. Eppure a protestare è solo qualche organizzazione umanitaria che non riesce a farsi ascoltare, anche perché la copertura mediatica è nulla.
La congiura del silenzio poggia su due motivi, uno di diritto e uno di fatto. Il motivo di diritto è che gli houthi, organizzazione politico-militare della minoranza religiosa zaydita (una forma di islam sciita), sono unanimemente indicati come i reprobi della storia. Il consiglio di Sicurezza dell’Onu li ha condannati come coloro che hanno mandato all’aria l’inconcludente processo di transizione di regime dello Yemen (che va avanti dal novembre 2011) optando per la politica delle armi dopo essersi stufati delle armi della politica. Lo Yemen è solo un altro capitolo del fallimento della Primavera araba di quattro anni fa: i moti del 2011 sulla scia di quello che avveniva in Tunisia, Egitto e Libia sono sfociati in cambiamenti gattopardeschi e in un logoramento della sicurezza nel paese. Gli houthi hanno approfittato di entrambe le cose e hanno occupato militarmente la capitale Sanaa nel settembre scorso, poi il palazzo presidenziale dal gennaio di quest’anno, quindi hanno mosso le proprie armate verso sud, dove il presidente ad interim Hadi e il suo governo si erano trasferiti nella città portuale di Aden. Da lì sono riparati in Arabia Saudita. A metà aprile, mentre i bombardamenti sauditi facevano sfracelli, il consiglio di Sicurezza ha votato una risoluzione (all’unanimità, con la sola astensione della Russia) con la quale ha stabilito sanzioni contro due leader houthi e l’ex presidente Saleh e un embargo alle vendite di armi ai ribelli zayditi e ai partigiani dell’ex capo di Stato: i cattivi, ufficialmente, sono loro.
L’allarme delle Nazioni Unite
La ragione di fatto è che gli houthi sono indicati da tutte le parti (da Israele all’Arabia Saudita, dalla Turchia agli Stati Uniti) come la longa manus dell’Iran nella regione. Di conseguenza le incomprensibili (dall’esterno) e interminabili convulsioni dello Yemen hanno improvvisamente assunto nitida chiarezza: si tratta solo di un altro fronte della guerra per procura che oppone sauditi e iraniani in tutto il Medio Oriente, di un altro episodio della saga della guerra di religione intraislamica fra sunniti e sciiti. Conta niente che fra uno zaydita dello Yemen e uno sciita dell’Iran ci sia la stessa differenza che c’è fra un cattolico di Roma e un ortodosso di Mosca, conta niente che molti sunniti del sud dello Yemen siano fieri avversari della transizione tanto quanto gli zayditi del nord, perché vorrebbero più autonomia o addirittura il ritorno a due Yemen indipendenti, uno a nord e uno a sud, com’era prima del 1990. Sì, l’Iran soffia sul fuoco della ribellione houthi e aiuta il movimento in vari modi almeno dal 2009, ma le rivendicazioni degli zayditi datano da prima (fra il 2004 e il 2009 gli houthi hanno combattuto sei guerre contro il governo di Sanaa). Poi c’è il paradosso che mentre il consiglio di Sicurezza dell’Onu consente alla coalizione a guida saudita di intervenire militarmente nello Yemen, l’Ocha, cioè l’Ufficio delle stesse Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari avverte: «I sistemi sanitari, idraulici e fognari dello Yemen sono a rischio imminente di collasso, in gran parte a causa della scarsità di carburante per i generatori e le pompe idrauliche».
In buona sostanza, lo Yemen sembra votato a una fra due possibili disgrazie: o sprofonderà in una guerra civile post-Primavera araba come quelle in corso in Siria e in Libia, oppure cadrà in una spirale di tipo iracheno, attirando sul suo suolo truppe di eserciti stranieri e militanti di gruppi terroristici, come è successo in Iraq a partire dal 2003. Ad accendere la miccia di queste catastrofiche eventualità sono il fallimento del processo di transizione avviato con le dimissioni di Ali Abdulah Saleh alla fine del 2011 e la paranoia saudita nei riguardi delle interferenze iraniane. L’errore di valutazione della dinastia Saud è foriero di calamità: Riyadh sta usando le maniere forti – col sostegno degli Stati Uniti e del consiglio di Sicurezza dell’Onu (con la sola astensione russa) – perché è convinta che l’assalto degli houthi ai palazzi del potere sia eterodiretto da Tehran, e dunque rappresenti un episodio della lotta che oppone Iran e Arabia Saudita per l’egemonia nell’area, mentre in realtà gli zayditi sono passati all’offensiva perché si sono sentiti esclusi dal processo di transizione sponsorizzato dalle Nazioni Unite e dal Consiglio dei paesi del Golfo e perché si sono resi conto che il governo ad interim del successore di Saleh, Abd Rabbih Mansur Hadi, era debolissimo politicamente e militarmente.
I fatti hanno dato loro ragione: a contrastare la loro avanzata sono scesi in campo solo parte dell’esercito nazionale, alcune milizie tribali e alcune islamiste legate al partito Islah; i giovani che, come gli egiziani di piazza Tahrir, sono stati l’avanguardia della primavera yemenita nel 2011 e gli autonomisti/secessionisti del sud noti come Hirak, sono rimasti a braccia conserte e non si sono opposti al tentativo di golpe degli houthi; la Guardia Repubblicana e altri reparti delle forze armate ancora legati all’ex presidente Saleh hanno appoggiato apertamente i ribelli zayditi. Perciò l’intervento militare saudita sta producendo esattamente ciò che voleva evitare: un’alleanza stretta e organica fra houthi e Iran e la disarticolazione delle istituzioni yemenite.
Il bunker di al Qaeda
Consapevole che i bombardamenti aerei da soli non fermeranno l’avanzata dei ribelli, re Salman dell’Arabia Saudita sta cercando di riunire le forze per un intervento di truppe di terra. Esclude l’ipotesi di un corpo di spedizione di soldati sauditi e degli altri paesi del Consiglio del Golfo sia per timore delle conseguenze politiche di una tale mossa, sia perché non si fida delle capacità militari del proprio esercito. Si è già rivolto a Turchia, Egitto e Pakistan perché forniscano loro il grosso delle truppe di terra per un intervento militare nello Yemen, ricevendo in risposta da tutti e tre i paesi un rotondo “no”. Benché debbano molto ai sauditi in termini di aiuti finanziari, egiziani e pakistani hanno trovato la forza e l’ingratitudine per dire di “no” a una richiesta che metterebbe le loro truppe nella stessa posizione di quelle americane in Iraq fra il 2003 e il 2010: come gli uomini della coalizione anglo-americana si trovarono nel mirino contemporaneamente degli islamisti sunniti dell’Esercito islamico, degli sciiti di Moqtada Sadr, dei nostalgici di Saddam Hussein e di al Qaeda in Mesopotamia, così le forze di terra di una coalizione a guida saudita si troverebbero a combattere contro un fronte avversario estremamente vario, composto dai bellicosi houthi, dalle forze armate yemenite ancora fedeli al deposto presidente Saleh, dagli autonomisti/secessionisti del sud, dall’Isis che si è affacciata nello Yemen rivendicando attentati contro moschee zaydite a Sanaa e da al Qaeda nella Penisola arabica (Aqap).
La filiale yemenita dell’organizzazione fondata da Osama Bin Laden ha dimostrato di essere una delle più attive e pericolose del mondo intero, e la discesa dello Yemen agli inferi di una situazione di tipo siriano o iracheno rappresenterebbe per essa una grande occasione di espansione e di rafforzamento. Gli americani si sono dovuti già ritirare dalla base in territorio yemenita dalla quale colpivano Aqap coi droni, e gli alqaedisti hanno occupato la città di al Mukalla nell’est del paese, che è la regione dove da sempre sono più attivi. Nel 2012 l’esercito nazionale aveva ripreso il controllo delle aree più importanti infiltrate da al Qaeda, ma la situazione determinata dall’offensiva houthi e dai bombardamenti sauditi ha riportato in auge i terroristi. Aqap è forse l’unica filiale qaedista capace sia di controllare territori, al modo dell’Isis, sia di organizzare e condurre attentati contro il nemico occidentale. Può vantare un pedigree che comincia con l’attentato suicida contro il cacciatorpediniere Uss Cole ad Aden nel 2000 e contro la petroliera francese Limburg nel 2002, e finisce coi pacchi bomba su aerei cargo americani del 2010 e con l’attentato di Parigi nel gennaio di quest’anno contro la redazione di Charlie Hebdo a opera dei fratelli Kouachi.
La guida dei falchi
Gli americani hanno appoggiato l’interventismo saudita organizzando un blocco navale che ha impedito agli iraniani di fare arrivare aiuti agli houthi. Ma ora, consapevoli dei rischi della situazione, consigliano re Salman di tornare al tavolo del dialogo con tutte le forze yemenite. I segnali che arrivano da Riyadh però non sono incoraggianti: il ministro degli Interni Mohamed bin Nayef, una specie di superpoliziotto, è stato nominato principe della corona, dunque erede al trono; e il 31enne figlio di re Salman, il ministro della Difesa e di molti altri dicasteri Mohammed bin Salman, è ora il secondo in linea di successione dopo bin Nayef. Un’équipe di falchi è alla guida del paese. E mentre qualche protesta per i danni collaterali dei bombardamenti sauditi comincia a levarsi, fa scandalo la totale mancanza di sensibilità della famiglia Saud, che attraverso il principe Alwaleed bin Talal ha fatto sapere che donerà 100 lussuosissime automobili Bentley ai piloti che hanno guidato i cacciabombardieri. Lo facesse Netanyahu coi suoi aviatori o l’avesse fatto a suo tempo G. W. Bush, che putiferio sarebbe scoppiato?
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