Tumulti razziali, il volto oscuro dell’America

USA flyer 1 (1)Due avvenimenti occupano le prime pagine dei giornali degli Stati Uniti, dove mi trovo in questi giorni: il dibattito alla Corte Suprema – cui gli attivisti LGBT (e il presidente Obama) chiedono un intervento per obbligare gli Stati, tredici su cinquanta, che ancora non riconoscono il «matrimonio» omosessuale ad adeguarsi – e  i tumulti razziali a Baltimora. Uno degli argomenti dei sostenitori del «matrimonio» fra persone dello stesso sesso di fronte alla Corte Suprema è che le persone omosessuali oggi sono nella stessa situazione degli afro-americani degli anni 1950. E che, come a colpi di sentenze la Corte Suprema ha eliminato la discriminazione razziale, ora è chiamata a eliminare la cosiddetta discriminazione di genere, riconoscendo alle persone omosessuali tutti i diritti degli altri, compreso un presunto diritto al matrimonio e all’adozione di figli.

La coincidenza – certo non voluta né programmata da nessuno – con i tumulti di Baltimora, occasionati dalla morte di un giovane afro-americano dopo un fermo di polizia, mette però fortemente in dubbio che la discriminazione razziale negli Stati Uniti non ci sia più. I fatti di Baltimora fanno seguito a quelli simili del 2014 di Ferguson, nel Missouri, e gli incidenti di questo genere si vanno moltiplicando. Hanno destato sensazione le parole del capo della polizia di Baltimora, Anthony Batts, un afro-americano assunto dalla città fuori dai ranghi dei poliziotti locali e proveniente dalla California, secondo cui «quando sono arrivato a Baltimora, ho trovato un razzismo da anni 1950. È come essere tornato indietro nel tempo». È così? E, se è così, perché?

Le parole di Batts sono insieme false e vere. Sono false perché rispetto agli anni 1950 è stato rovesciato come un calzino il quadro giuridico. Se nel 1950 a Baltimora, e in molte altre città, c’erano autobus su cui i neri non potevano salire, ristoranti in cui non potevano entrare e condomini dove non potevano abitare – tutto in forza di regolamenti all’epoca perfettamente legali – oggi la discriminazione è severamente proibita e perseguita per legge, e decine di agenzie federali, per non parlare degli studi legali specializzati, danno la caccia a qualunque minimo residuo della discriminazione razziale, ufficialmente vietata dagli anni 1960 e 1970.

Ma le dichiarazioni del capo della polizia di Baltimora sono anche vere, perché di fatto ci sono condomini in città dove una scusa per non vendere o affittare agli afro-americani si trova e, in una metropoli dove i neri sono il 68%, la grande maggioranza delle posizioni di vertice nell’amministrazione pubblica e nelle aziende è occupata dalla minoranza bianca, benché sia il capo della polizia sia il sindaco, la democratica Stephanie Rawlings-Blake, siano neri. E numerose inchieste riconoscono che la polizia, pure guidata da un afro-americano – ma composta in maggioranza da bianchi -, è più manesca con i neri e con chi parla spagnolo che con i bianchi anglofoni.

La ricerca delle cause è un lavoro in corso, su cui anche i sociologi si interrogano e su cui esiste una vastissima letteratura. Questa ha anzitutto sgombrato il campo da un equivoco. Non bisogna confondere discriminazione razziale e discriminazione economica. Spesso a essere discriminati non sono i neri ma i poveri. Basta una visita a un ristorante alla moda di New York o Los Angeles per vedere come siano pacificamente frequentati da afro-americani, e quante coppie etnicamente miste ci si facciano vedere, una grande differenza con i primi sei decenni del secolo scorso. Qualunque magnate bianco dell’economia e della finanza sarebbe onorato di vedere il proprio erede sposare una delle figlie del presidente Obama, e certamente pochi condomini rifiutano un appartamento alle stelle afro-americane del cinema e dello sport, ma anche delle professioni medica e legale e della politica.

Le statistiche citate a Baltimora dal capo della polizia Batts possono essere quasi tutte rilette criticamente concludendo che a essere esclusi da certi quartieri, condomini o circoli non sono i neri in genere, ma i neri poveri: e anche i bianchi poveri, soprattutto – ma non solo – i «latinos» di madrelingua spagnola. La società americana, fondata sull’etica protestante della responsabilità individuale e dell’operosità, conosce forme feroci di discriminazione contro i poveri. Lo sa bene la Chiesa Cristiana, che a Baltimora marcia con i neri per protestare contro l’«ineguale brutalità» della polizia, ma nello stesso tempo ricorda che gli afro-americani non sono i soli a essere discriminati.

Perché, però, a Baltimora come altrove, le statistiche ci dicono che è più facile essere pestati in una stazione di polizia se si è neri – e qualche volta ci scappa il morto? Come sempre nei fenomeni sociali complessi, non c’è un’unica causa. Ma tre esercitano certamente un ruolo.

La prima causa è demografica. I bianchi – specie i bianchi della classe medio-bassa impoverita dalla crisi economica, da cui proviene la maggioranza degli agenti della polizia di Baltimora – scoprono di essere diventati minoranza, e hanno paura. A Baltimora non ha nessun senso parlare di «minoranza afro-americana»: i neri sono una salda maggioranza, 68%. Nel 2015 i bianchi non «latinos» sono il 62% della popolazione degli Stati Uniti, contro il 18% di «latinos» e il 13% di africani, senza dimenticare il 5% di americani di origine asiatica, soprattutto cinese. Le proiezioni statistiche sono sempre incerte, ma molte prevedono che i bianchi non «latinos» perderanno la maggioranza assoluta tra il 2030 e il 2040 e scenderanno sotto il 40% nel decennio che inizierà nel 2060. Gli afro-americani che, contrariamente a una certa mitologia, hanno un tasso di fertilità superiore solo di 0,014 nati per donna ai bianchi, non saranno aumentati di molto ma, anche senza tenere conto dell’immigrazione, saranno quasi raddoppiati i «latinos», perché fanno molti più figli. Di fronte alla prospettiva – che in città come Baltimora è già realtà – di passare da maggioranza a minoranza, non è sorprendente che si ingeneri in molti bianchi, specie in quelli non protetti dalla ricchezza e dall’apparenza alle élite, una mentalità da cittadella assediata.

La seconda causa è l’irritazione dei bianchi di fronte a forme di «razzismo al contrario» e il fallimento delle politiche di integrazione razziale tramite la cosiddetta «affirmative action», cioè le leggi che riservano «quote» alle minoranze. Lo stesso capo della polizia Batts ha affermato di trovare ridicola e negativa la prassi della polizia di Baltimora di riservare un numero uguale di promozioni a poliziotti bianchi e neri, anziché dare rilievo a puri criteri di merito. Ricordo bene anni fa la gioia di un collega preside di una facoltà di sociologia per essere riuscito ad assumere tra i suoi professori una donna nera lesbica: di scarsi meriti scientifici, certo, ma che in un colpo solo permetteva di rispettare un regolamento che imponeva la presenza tra i docenti di almeno una donna, almeno una persona omosessuale e almeno un non bianco.  Sono norme di questo genere che irritano la maggioranza, o ex-maggioranza, bianca e alla fine alimentano lo stesso razzismo che affermano di voler combattere.

La terza ragione è la minore presa della religione nelle grandi aree urbane degli Stati Uniti, specie nei quartieri più poveri. È vero, negli Stati Uniti va in un luogo di culto con qualche regolarità il doppio delle persone rispetto all’Unione Europea (40% contro 20%). Ma i numeri diminuiscono anche in America, e diminuiscono di più nelle grandi metropoli. Le comunità religiose razziste – comprese alcune guidate da pastori afro-americani che discriminano i bianchi – negli Stati Uniti esistono, ma sono una piccola minoranza. Nella maggioranza dei casi, la religione è stata un potente fattore d’integrazione. La Chiesa Cristiana ha avuto i primi sacerdoti afro-americani già nel XIX secolo e ha sempre combattuto la segregazione e la discriminazione. Nelle comunità Cristiana e protestanti le tensioni si sono spesso stemperate e ricomposte. Dove queste comunità sono meno frequentate, o diventano minoritarie, ricomporre le tensioni diventa più difficile. Non basta la retorica del presidente Obama. Per sentirsi fratelli, occorre riconoscersi figli dello stesso Padre.

Massimo Introvigne

Tratto da: http://www.lanuovabq.it/

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