Oltre un mese di raid aerei non ha indebolito i miliziani. Serve una operazione di terra. Le mappe pubblicate sui media sminuiscono le reali conquiste dei miliziani. La politica internazionale concentra l’attenzione su Kobane, in Siria, dove il vero obiettivo resta Assad. Ma intanto l’Iraq che sta per cadere nel silenzio generale. L’analisi di due studiosi, per gentile concessione de L’Orient-Le Jour. Traduzione a cura di AsiaNews.
Beirut – Dopo un mese e mezzo, a dispetto delle dichiarazioni di facciata e dei bombardamenti sulle roccaforti dello Stato islamico (SI, ex Isis), esso non pare affatto indebolito. Al contrario, le pressioni provenienti da più fronti non sembrano in grado si scalfirlo e il mondo scopre con inquietudine che questo para-Stato non potrà mai essere smembrato senza l’uso di forze terrestri. La grande coalizione sembra essere paralizzata dall’inefficacia dei (soli) bombardamenti aerei. La Turchia non si lascia coinvolgere, se non al prezzo di ottenere conquiste nel nord della Siria, conquiste che i curdi pagheranno presto a caro prezzo. In linea teorica anche la Giordania è sotto minaccia, come del resto lo è già il Libano. Il Fronte di al-Nusra ha interrotto dal mese di settembre ogni tipo di attacco nei confronti dello SI e dobbiamo temere anzi una riconciliazione fra i due movimenti. A livello locale, le popolazioni siriane continuano a sostenere al-Nusra contro i bombardamenti e le tribù della provincia irakena di Anbar non sembrano ancora pronte a rivoltarsi contro il Califfato.
L’analisi relativa alla localizzazione dei bombardamenti della coalizione dal mese di agosto costringe a rivedere la minaccia rappresentata dallo Stato islamico e la sua portata complessiva. A dispetto degli annunci ad effetto sulla precisione e la portata dei bombardamenti, un’analisi critica della massa delle informazioni trasmesse dal dipartimento americano della Difesa e da organismi privati come l’Istituto per lo studio della guerra lascia sconcertati. Tra l’8 agosto e il 6 ottobre, vi sono stati almeno 250 raid aerei in Iraq e 90 in Siria. In realtà, vengono colpite solo alcune attrezzature, degli edifici lontani dai centri urbani e colonne di veicoli sin troppo visibili. I jihadisti si mescolano con la parte restante della popolazione e nessuno sa cosa distruggano davvero i missili occidentali scagliati da un’altezza di 5mila piedi. E le immagini raccontano il falso.
Certo, essi hanno come bersaglio alcuni centri nevralgici dello Stato islamico: Raqqa, Deir ez-Zor in Siria, e ancora Mosul, Sindjar, Haditha e Fallujah in Iraq, così come siti sotto il controllo jihadista da diversi mesi. Ma circa il 30% delle operazioni dell’aviazione statunitense riguardano quartieri di Erbil, Kirkouk, Amerli e Baghdad, città che – almeno sulla carta – sarebbero libere dalla presenza dello SI. Ciò vuol forse dire che esse non lo sono più?
Il 2 e 3 ottobre si sono verificati violenti scontri a sud di Kirkouk con i peshmerga curdi. In questa città, il 6 ottobre alcuni edifici della 12ma armata irakena sono stati spazzati via da una esplosione. Il giorno precedente la città di Hît, a sud di Haditha, era passata sotto il controllo dello SI nel silenzio assoluto dei media. Tra il primo e il 7 ottobre, la pressione dei combattimenti si è concentrata a ovest di Baghdad, senza che i bombardamenti americani siano riusciti a farli desistere nella loro impresa. Lo SI ha ormai piantato solide radici a 40 km dalla capitale. Il 6 ottobre lo SI si è scontrato con la polizia e le milizie sciite nei pressi di Aziz Balad, poche decine di chilometri a nord di Baghdad. Ramadi, ultima città della provincia di al-Anbar a rispondere al governo centrale, dovrebbe presto cadere sotto il controllo dei jihadisti, così come la base aerea di a-Assad, non lontano da Hît.
La maggior parte delle mappe che riportano i territori dello Stato islamico nei giornali francesi e americani sono sbagliate (forse di proposito?). In effetti, esse presentano spesso i territori interessati sotto tre diverse denominazioni: “Zone sotto il controllo dello Stato islamico”, ridotte a fili sottili come fossero la tela di un ragno; “Zone teatro di frequenti attacchi dello SI”; e “Zone di sostegno allo SI”. Nessuno, se non i membri dello SI, può vantare autorità alcuna su questi ultimi due spazi. Queste cosiddette “zone di sostegno” sono più che una semplice riserva di terre da conquistare, perché esse sono già di fatto territori dello SI. Ridurli a semplici linee lungo delle assi non ha alcun senso: gli spazi di mezzo non fanno riferimento né a Baghdad, né agli Stati Uniti, ma al Califfato.
Forse che la guerra mediatica lanciata dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite contro lo Stato islamico nasconde la vera potenza di questa piovra, capace di adattarsi bene al proprio nemico? Di fatto, questa organizzazione terrorista è totalmente decentrata, ciascun battaglione gode di una propria autonomia di azione ed è in grado di moltiplicare le operazione periferiche, senza il bisogno di un consultazioni. A un Occidente ridotto a ormai vetuste tattiche aeree uniformi e prevedibili (la guerra “senza-terra”), si oppone un jihadismo multipolare, reattivo e radicato. Inoltre, la propaganda militare della coalizione vuole focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale su Kobane e la questione siriana, mentre la situazione di ben maggiore gravità è in Iraq: all’orizzonte qui si profilano ben quindici tragedie in tutto simili a quella di Kobane…
Quali sono le ragioni di una simile scelta? Gli Stati Uniti hanno una certa predilezione per il palcoscenico siriano, dal quale da anni vogliono cacciare il presidente Bashar al-Assad arrivando persino a coinvolgere la Turchia in cambio di contropartite, pur conoscendone l’inaffidabilità. Kobane è destinata comunque a cadere, con o senza l’aiuto velleitario di Ankara. Nel frattempo non si pensa più al fronte irakeno, dove la minaccia si fa sempre più grande. Tutti i governi occidentali ripetono ormai da tempo la stessa scusa: senza truppe di terra, non si può fare nulla. Le opinioni pubbliche mondiali hanno potuto così, nel tempo, familiarizzare con la prossima tappa: l’invio di soldati o di commando in Siria, e non in Iraq.
Tuttora privi di una soluzione politica e ostinatamente contrari all’apertura dei negoziati con l’Iraq e Damasco, gli Stati Uniti si intestardiscono dunque in una strategia priva di orizzonti e che contribuisce alla crisi del Medio Oriente.
*Olivier Hanne, professore associato, docente di Storia, ricercatore all’università di Aix-Marseille.
*Thomas Flichy, professore associato, docente di Diritto, ricercatore e professore all’Accademia militare di Saint-Cyr.
Fonte: http://asianews.it/
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