Iraq, testimonianze dall’inferno jihadista

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fuga_da_mosul_iraq«La gravità di ciò che dici mi sta spaventando… stanno decapitando bambini?» chiede lo sconcertato giornalista della Cnn, a Mark Arabo, uomo d’affari e leader cristiano protestante californiano. «Lo stanno facendo sistematicamente», ripete l’uomo scandendo le parole e precisando che «a Mosul esiste un parco dove sono stati decapitati bambini e le loro teste sono state infisse su dei bastoni… si tratta di crimini contro l’umanità. Stanno commettendo i più orrendi crimini che si possano immaginare», conclude, riferendo testimonianze fresche dall’Iraq. Si sa ancora poco di quel che avviene sotto la spada del Califfato islamico, che include tutto l’Iraq centro-settentrionale e le regioni orientali della Siria. Ma quel poco che si conosce è agghiacciante, anche se ancora difficile da verificare. Le ultime notizie, di fonte irachena, parlano di donne di religione yezida catturate come schiave e vendute agli jihadisti delle milizie dell’Isis. La notizia di ieri riguarda, invece, la scoperta di una fossa comune con 500 corpi, sempre appartenenti a minoranze religiose, cristiani e yazidi dunque. Molti di essi sarebbero stati sepolti vivi dai miliziani.

Gli abitanti cristiani dell’Iraq settentrionale non hanno tempo, né modo di verificare queste notizie. Quando gli jihadisti arrivano nelle loro città o nei loro villaggi, sono costretti a una fuga precipitosa. Come ai tempi dell’invasione dei mongoli, sono i miliziani stessi dell’Isis che commettono atrocità impressionanti, le pubblicizzano, le amplificano, le diffondono, in modo da indurre gli “infedeli” a fuggire in massa. Se scappano in auto, vengono fermati nei posti di blocco dell’Isis, viene sequestrato loro tutto e sono costretti a percorrere il deserto a piedi, sotto il sole, senza acqua né cibo. Come testimoniano fonti di Aiuto alla Chiesa che Soffre, migliaia di persone hanno abbandonato rapidamente le proprie abitazioni senza avere il tempo di portar nulla con sé. Molti sono arrivati ad Erbil in pigiama. Con i rifugiati sono giunte anche tante tragiche storie: a Qaraqosh una donna è stata uccisa assieme a sua madre ed ai suoi due bambini, mentre a Tall Keyf un giovane è morto in seguito ad un bombardamento. «Siamo senza parole perché quanto successo è davvero scioccante. I cristiani sono a Mosul da secoli e quelle famiglie sono state improvvisamente strappate via dalla loro città, dalla loro casa, dalla loro vita. Siamo davvero preoccupati per il futuro dei cristiani in questo paese». Questa era stata la reazione di monsignor Saad Syroub, vescovo ausiliare caldeo di Baghdad, a quanto accaduto a Mosul, all’inizio della persecuzione. «Non era mai accaduto che i cristiani fossero cacciati dalle proprie case come se non avessero alcun diritto – commentava allora il presule – Purtroppo è questa la realtà oggi in Iraq, soprattutto a Mosul». Nei giorni successivi sarebbe accaduto ancora, non solo a Mosul, ma anche a Qaraqosh e in tutte le cittadine e i villaggi cristiani attraversati dalle milizie del Califfo.

Dove si possono rifugiare i cristiani? In Kurdistan, soprattutto. La regione autonoma, ormai di fatto indipendente, già ha dimostrato di essere la più tollerante con le minoranze religiose. «Quanti vivevano tra Alqosh e Tall Kayf si sono diretti a Duhok, mentre chi si trovava nei villaggi tra Qaraqosh e Bashiqa è venuto ad Erbil» – dice una fonte anonima irachena ad Aiuto alla Chiesa che Soffre – A differenza di altre aree dell’Iraq, in Kurdistan i cristiani godevano di una certa tranquillità e avevano un discreto tenore di vita. «In molti possiedono abbastanza denaro e hanno l’opportunità di partire. E probabilmente lo faranno perché sono stanchi di soffrire. Pensano all’avvenire dei propri figli e sanno dai loro parenti emigrati che all’estero potranno trovare finalmente serenità».

Benché non possa essere riconosciuto dalla Turchia (che ha un problema di indipendentismo curdo, in casa propria, fin dall’origine della Repubblica Turca), il Kurdistan è l’unica oasi di stabilità in Iraq. L’intervento aereo statunitense, giunto al suo terzo giorno, mira proprio a fermare le colonne militari dell’Isis dirette alla sua capitale Erbil. Aiutando le milizie di autodifesa curde dei Peshmerga, gli americani sperano di permettere alle colonne di profughi di arrivare fin dove troverebbero una maggiore protezione. L’intervento militare si concentra anche nell’area montuosa di Sinjar, dove sono intrappolati circa 4mila iracheni yezidi. Completamente circondati e privati di cibo, possono resistere, al massimo, ancora pochi giorni. Gli aerei statunitensi stanno colpendo le milizie assedianti e lanciando agli assediati rifornimenti alimentari, batterie per cellulari (per permettere loro di comunicare) e kit di pronto soccorso. Il patriarca caldeo Raphael Sako, comunque, è sconcertato per quanto poco (e quanto tardi) stiano facendo gli americani, che erano i principali responsabili per la sicurezza irachena sino a tutto il 2011. «La decisione del presidente americano Barack Obama di intervenire militarmente soltanto per difendere Erbil è sconcertante». Il patriarca critica fortemente il mancato intervento Usa per liberare Mosul e la Piana di Ninive dallo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, e la scelta di Washington di non dare appoggio alle forze del governo al Maliki, a meno che queste non si alleino con i Peshmerga. «È davvero deprimente pensare che questa drammatica situazione continuerà finché l’esercito iracheno non si schiererà al fianco di quello curdo per combattere l’Isis».

In questo dramma, c’è un unico grande assente. Ed è, appunto, il governo iracheno. Chiuso nelle sue province sciite, da Baghdad in giù, il premier Al Maliki pare proprio aver rinunciato del tutto a riprendere il controllo delle province sunnite. L’interesse per la protezione delle minoranze pare proprio l’ultima delle sue priorità. L’intervento straziante della parlamentare curda, di religione yezida, Vian Dakhil la cui famiglia rischia di essere spazzata via, è stato accolto dal silenzio imbarazzato del parlamento di Baghdad e seguito dall’inazione più completa. Al Maliki sta governando un Paese in cui è in corso un vero genocidio e non riesce (o non vuole?) impedirlo. Anche Raphael Sako, nel suo ultimo appello, punta il dito contro Bagdad. Il mese scorso il Parlamento non è riuscito a trovare un accordo sul nome del nuovo premier ed ha rinviato la seduta al prossimo 12 agosto. «Mentre il paese è sotto attacco, i politici continuano a lottare per la conquista del potere», ha detto il patriarca.

La causa di questa incredibile situazione non sembra essere solo il rapporto di forze, la debolezza dell’esercito regolare iracheno, o l’impopolarità di Al Maliki, che dai sunniti è visto come un nemico in casa. La causa principale sembra proprio essere il settarismo, che ha caratterizzato tutta la politica irachena dal 2003 in poi. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, che imponeva con estrema violenza l’egemonia sunnita, il Paese si è diviso per linee religiose e non ha mai più trovato una sua unità.

Questa divisione settaria è ben visibile anche in alcune testimonianze di cristiani, riguardo il periodo precedente a questa guerra civile, ancora in “tempo di pace”: «La Chiesa ci aiuta come può, ma i posti migliori sono riservati ai musulmani. Ho fatto domanda di lavoro ad una compagnia petrolifera locale, la Northoil, ma la dirigenza è sciita e assume soltanto chi condivide la stessa fede», dice Karam, un cristiano di Kirkuk, ad Aiuto alla Chiesa che Soffre. «Noi cristiani stiamo ormai scomparendo dall’Iraq. Proprio come è successo ai nostri fratelli in Turchia, Arabia Saudita e Nord Africa. Perfino in Libano siamo ormai una minoranza», ribadisce monsignor Yousif Mirkis (arcivescovo caldeo di Kirkuk) durante una recente conversazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre. «Undici anni fa rappresentavamo appena il 3% della popolazione, eppure oltre il 40% dei medici specializzati era composto da cristiani. Così come la gran parte degli intellettuali, degli scrittori e dei giornalisti». Merito dell’educazione diffusa dalle tante scuole gestite dalla Chiesa e di una mentalità cristiana tradizionalmente aperta e multilingue. «Ovviamente molto del nostro dinamismo è andato perduto a causa del massiccio esodo di fedeli».

E non si tratta solo di una guerra settaria. È un fenomeno che ha radici decisamente più profonde: «Assistiamo ad una guerra tra la modernità e le società fortemente legate al passato», dice monsignor Mirkis. Il presule sottolinea come il nome stesso scelto dai salafiti – in arabo “pii antenati” – denoti il desiderio di un ritorno alla società del VII Secolo. I cristiani sono presi a simbolo del pluralismo della società moderna e sono massacrati anche per questo motivo. Ma non rappresentano l’unico nemico di chi auspica un tale ritorno al passato. «È l’intera comunità intellettuale ad essere sotto attacco, élite musulmane incluse – afferma l’arcivescovo – pensate che dall’inizio del 2013 sono stati uccisi ben 180 professori universitari. Con conseguenze disastrose per l’intera società irachena». Una volta finito l’intervento aereo americano, che potrà solo arginare l’attacco jihadista, occorrerà ripensare all’Iraq. Ricostruire le case sarà possibile, così come restituirle ai legittimi proprietari a cui sono state sequestrate. Ricostruire la società irachena, piuttosto, sarà la vera missione impossibile.

di Stefano Magni

Tratto da: http://www.lanuovabq.it/


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