Giusto un anno fa l’Irlanda varava una nuova legge sull’aborto, The Protection of Life During Pregnancy Act, legge che ampliava i casi in cui si poteva ricorrere all’aborto. Non più solo se la vita della madre era in pericolo, ma anche nel caso in cui la donna dichiarava che si sarebbe uccisa non potendo sopportare l’onere di crescere un figlio. Come avevamo già appuntato l’anno scorso , il caso dell’annunciato “suicidio” sarebbe diventato facile pretesto per chiedere l’aborto sempre e comunque. Una rivoltella caricata a salve da puntare contro i medici per ottenere l’aborto.
L’Irlanda aveva dovuto cambiare la propria legislazione perché, manco a dirlo, la solita Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ci aveva messo lo zampino. Sotto i ferri dei giudici, infatti, nel 2010 era finito un caso – chiamato A, B, C contro Irlanda – che aveva offerto il destro alla Corte per mettere all’angolo il Parlamento irlandese: questi avrebbe dovuto specificare meglio le circostanze riferite al «pericolo per la vita per la donna». Da qui la nuova previsione normativa che inseriva anche il caso di pericolo di suicidio come condizione legittimante l’aborto. Rimaneva fuori e rimane fuori tuttora dalla legislazione irlandese la possibilità di abortire se in pericolo non c’è la vita della madre, ma solo la sua salute psico-fisica. Così come altre condizioni quali la previsione di anomalie fetali e la gravidanza a seguito di stupro o incesto.
Ma laddove non può la Cedu forse potrà l’Onu. Infatti, il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso 15 luglio ha chiamato alla sbarra il ministro della Giustizia irlandese, Frances Fitzgerald. Il relatore del Consiglio sul “caso Irlanda”, il dott. Yuval Shany così si è espresso: «Sebbene la legge del 2013 abbia rappresentato un miglioramento rispetto alla situazione precedente, tale normativa non ha ancora risolto molte delle preoccupazioni del Consiglio per i Diritti Umani e ha lasciato posto alla criminalizzazione dell’aborto, anche in circostanze nelle quali noi Stati (membri) riteniamo debba esserci l’obbligo di consentire l’aborto sicuro e legale».
Ma quali sono le accuse specifiche? L’Irlanda non starebbe rispettando l’accordo di carattere sovranazionale denominato International Covenant on Civil and Political Rights. Tale patto, secondo Shany, tra le altre cose prevedrebbe il “diritto” all’aborto. Siamo andati naturalmente a spulciare questo documento, ma tra i suoi 53 articoli di “diritto all’aborto” manco l’ombra. Nemmeno figurano quelle espressioni care al lessico internazionale che edulcorano la pratica dell’omicidio prenatale con perifrasi quali “diritto alla salute sessuale e riproduttiva”, “tutela della salute della donna in gravidanza”, “libero accesso alle cure per le gestanti”. Nulla di tutto questo. Ci viene in soccorso lo stesso Shany che nella sua requisitoria ai danni della delegazione irlandese guidata dal ministro della Giustizia così chiede con tono vibrante e risentito: «Può la delegazione spiegare come concilia le sue leggi vigenti in materia di aborto con i suoi obblighi ai sensi dell’articolo 6 e in particolare dell’articolo 7 del Patto che è, per quanto io possa ricordare, un diritto assoluto? ».
Dunque l’articolo 6 riguarda il diritto alla vita. Ovvio che Shany non pensasse al nascituro quando ha citato questo articolo a sostegno del “diritto all’aborto”, perché l’art. 6 dovrebbe essere usato per vietare tale pratica più che per legittimarla. Naturalmente il relatore Onu aveva in mente la madre, ma la legislazione irlandese come abbiamo visto permette di abortire se è in pericolo di vita o se minaccia di togliersi la vita e dunque l’art. 6 è rispettato. Il mistero dunque rimane. L’art. 7 riguarda invece la tortura. Siamo alle solite. Qualche tempo fa l’Onu aveva fatto le pulci alla Santa Sede perché la sua posizione critica in relazione alle pratiche abortive avrebbe significato costringere le donne a tenersi il bambino e quindi sottoporle ad una vera e propria tortura. Impedire di ammazzare equivale a torturare. Come avevamo già chiarito, la Santa Sede riuscì a rispedire al mittente tutte queste accuse e ne uscì indenne.
Ma ora si vede che il binomio tortura-aborto deve essere proprio un must presso l’Onu, un chiodo fisso per crocifiggere quei Paesi che non si allineano alla cultura pro-choice. E dunque l’Irlanda torturerebbe quelle donne che vogliono abortire per motivi legati alla loro salute o a quella del nascituro e non possono farlo perché la legge in questi casi ad oggi non prevede l’accesso all’aborto. Non solo. La tortura si verificherebbe anche per quelle madri che già oggi possono legittimamente abortire se in pericolo di vita o se minacciano il suicidio. Infatti, prima di abortire, secondo la legge irlandese, la donna dovrebbe sottoporsi all’esame di tre medici per verificare se davvero c’è questo pericolo oppure se è solo pretestuoso. Shany chiede come questa visita medica possa essere mai «coerente con l’obbligo di proteggere la donna contro la tortura mentale». Sì avete capito bene: l’esame diagnostico da parte dei medici configura una tortura mentale. Che la donna vada ad abortire senza verifica alcuna delle motivazioni addotte (così come accade da noi in Italia per gli aborti fino al 90° giorno).
Mary Jackson, funzionario irlandese presso il Dipartimento della Salute, ha risposto alle accuse dicendo che secondo l’art. 25 del Patto la legge sull’aborto è espressione dell’autodeterminazione democratica dei cittadini e dunque che l’Onu non metta becco negli affari interni di una nazione. La santa inquisizione laica delle Nazioni Unite si è dunque ritirata per decidere al fine di emettere la quinta serie di osservazioni conclusive. Fino a quando l’Irlanda reggerà ai questi ripetuti colpi di ariete? Fino a quando, lei sì, riuscirà a resistere a questa tortura?
di Tommaso Scandroglio
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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