Con tre giorni di lutto nazionale, a partire dal 10 luglio, la Repubblica Centrafricana ricorda le vittime dell’ultima strage di cristiani compiuta dai miliziani islamici Seleka: 26 morti e 35 feriti. Autore dell’eccidio, il 7 luglio, è stato un commando che ha fatto irruzione nel campo per sfollati allestito presso la sede dell’arcivescovado di Bambari, nei pressi della cattedrale di Saint-Joseph, che al momento ospitava oltre 10.000 persone.
Bambari si trova al centro del paese. È quindi un punto di faglia tra il nord, dove vivono in prevalenza gli islamici, e il sud, dove si concentrano i cristiani: rispettivamente il 15% e il 50% della popolazione. Da maggio la città è diventata il quartier generale dei Seleka e da allora i cristiani sono più che mai sotto attacco, nonostante la presenza dei soldati della missione francese Sangaris e della Misca, la missione militare dell’Unione Africana. Un’ondata di violenza particolarmente cruenta ha provocato tra il 23 e il 25 giugno almeno 70 morti e un centinaio di feriti. Pochi giorni prima, nello Ouaka, il fiume che taglia in due la città, era stata rinvenuta una decina di cadaveri tutti con segni di torture.
I Seleka, in origine una coalizione antigovernativa formatasi nel nord, con l’apporto di numerosi miliziani islamici provenienti dai vicini Sudan e Ciad, avevano incominciato a perseguitare i cristiani, a profanare, saccheggiare e distruggere chiese e altri edifici religiosi, ad attaccare e uccidere sacerdoti e suore dopo aver destituito il presidente François Bozize nel marzo del 2013 sostituendolo con il loro capo, Michel Djotodia. Hanno continuato a farlo, impunemente, anche dopo che lo scorso gennaio, su pressione internazionale, il presidente Djotodia ha rassegnato le dimissioni cedendo la carica a Catherine Samba-Panza. Non solo: anche una parte dei militari Misca musulmani si è schierata con i Seleka, rendendosi colpevole di abusi, torture e omicidi. Per questo ad aprile si è reso necessario procedere al ritiro di tutte le truppe inviate dal Ciad.
È proprio a causa dell’inefficienza, a dir poco, dell’esercito centrafricano e dei militari Sangaris e Misca che circa un anno fa i cristiani hanno incominciato a formare dei gruppi armati di autodifesa chiamati Anti-Balaka (il “balaka” è una sorta di machete). Dapprima si sono limitati a proteggere i fedeli e i luoghi di culto: erano formazioni più o meno spontanee, disorganizzate e male armate. Poi, a loro volta, rafforzati da militari dell’esercito disertori, legati all’ex presidente Bozize, hanno iniziato una controffensiva ben presto trasformatasi in una caccia all’uomo di cui hanno fatto le spese soprattutto le comunità islamiche residenti nella capitale Bangui e nel sud del paese. Dallo scorso dicembre gli Anti-Balaka sono diventati milizie ben armate e dotate di un sofisticato apparato di comando e organizzativo.
Un ponte aereo nei mesi scorsi ha messo in salvo gran parte degli islamici stranieri, rimpatriati a decine di migliaia. Per proteggere la popolazione musulmana autoctona, a partire da aprile si è provveduto a riportare al nord le comunità stanziate nella capitale e nel resto del sud. Anche una parte dei cristiani stabilitisi in passato nel nord è tornata al sud o ha tentato di farlo. Nel loro caso, quasi sempre si è trattato di una fuga disperata, un esodo non assistito, che li ha lasciati privi di beni e di mezzi di sostentamento. Gli sfollati cristiani si sentono perciò abbandonati dalle autorità nazionali e dalla comunità internazionale: “pensano soltanto ai musulmani di Seleka” accusano gli sfollati di Bambari scampati all’attacco del 7 luglio.
In seguito alla forzata riorganizzazione demografica, si delinea il rischio di una divisione di fatto del territorio nazionale – tutti gli islamici al nord, i cristiani e gli animisti al sud – come già in Mali, in Costa d’Avorio e in altri stati africani (in Sudan la frattura è diventata insanabile fino a sfociare nel 2011 nella secessione del sud, ma dopo decenni di guerra civile).
Il rischio è tanto maggiore in quanto anche nella Repubblica Centrafricana, come nel resto dell’Africa subsahariana, l’identità religiosa è rafforzata dall’appartenenza etnica.
Come evidenzia un rapporto di Amnesty International pubblicato da poco, dal titolo “Repubblica Centrafricana: è tempo di responsabilità”, la profondità della crisi si misura non solo dalla grande quantità di civili uccisi deliberatamente, ma anche e più ancora dal fatto che a molte vittime siano inflitte mutilazioni, che molti cadaveri vengano rinvenuti smembrati e bruciati. Da una situazione per anni sostanzialmente stabile benchè contraddistinta da uno stato di conflittualità endemica determinata dal tribalismo e dalle precarie condizioni economiche che sempre rendono tesi, quando non critici i rapporti etnici in Africa, la Repubblica Centrafricana è passata a uno scontro al limite del genocidio.
Per il 21 luglio è convocato un forum di riconciliazione a Brazzaville, la capitale della Repubblica del Congo. Ogni giorno che passa, portando nuovi morti, danni, lutti, rende più difficile ripristinare condizioni di convivenza accettabili.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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