Una sentenza non scontata

20-Foto_0dwedew3

20-Foto_0dwedew3Trapani, condannati mandante e esecutore dell’omicidio di Mauro Rostagno. A 26 anni dai fatti si conferma quel che tutti a Trapani sapevano: Mauro Rostagno è stato ucciso dalla mafia per il suo lavoro di giornalista. Una sentenza che ridà speranza a chi lotta per la legalità. 

Era già quasi mezzanotte quando, il 15 maggio scorso, nell’aula Falcone del Tribunale di Trapani si è sentito il campanello che annuncia l’uscita della Corte: 59 ore di Camera di Consiglio prima di arrivare alla sentenza per l’omicidio di Mauro Rostagno, ucciso il 26 settembre 1988 mentre tornava a casa, a Lenzi, vicino a Trapani. Ci sono volute 76 udienze in più di tre anni di processo e l’audizione di 144 testi per arrivare a dire quello che tutti in città sapevano: Rostagno è stato ucciso dalla mafia per il suo lavoro di giornalista. Ergastolo, dunque, per due uomini di mafia già in carcere per altri delitti: Vincenzo Virga, mandante dell’omicidio, all’epoca capomandamento di Trapani, e Vito Mazzara, esecutore materiale, picciotto esperto di tiro a volo che, tra le altre cose, andava a sparare con Matteo Messina Denaro, oggi ultimo boss latitante.

Un risultato importante e tutt’altro che scontato perché arriva dopo tanto tempo e soprattutto dopo aver superato cecità, errori giudiziari, disattenzioni e veri e propri depistaggi. Istruito a un passo dall’archiviazione definitiva grazie a un segno sui bossoli rinvenuti sul luogo del delitto – il «cameramento», la «firma» della mafia –, il processo coglieva di sorpresa una città sonnolenta e piena di segreti, da sempre poco disponibile a mettere in piazza i suoi problemi.

Qui, dicono, in questo estremo lembo di Sicilia, si nasconde la «cupola» e qui è dove ha sempre stretto alleanze con la massoneria e i servizi deviati, in salotti che vedevano riuniti pezzi di istituzioni e uomini punciuti, affiliati alla criminalità organizzata.

Negli anni caldi delle stragi, a Trapani si nota appena qualche increspatura sulla superficie del mare: dove si fanno gli affari è meglio non attirare l’attenzione. Non stupisce allora che un uomo vestito di bianco venuto dal Nord, fondatore di una comunità di cui si chiacchiera parecchio (il baglio delle fimmine nure, le donne nude, lo chiamano), dia nell’occhio, soprattutto quando si ostina a portare nelle aule giudiziarie, fino a quel momento deserte, le telecamere della televisione per cui lavora, la RTC. Lo notano eccome, e mentre la gente corre a casa per sintonizzarsi quando lui parla in tv, la mafia gli manda a dire di andare a zappare la terra. E lui ci va, continuando a fare nomi e cognomi del malaffare trapanese mentre dà di zappa a favore di telecamera. I mafiosi non si limita a denunciarli, li prende anche in giro.

Perché Rostagno era così: ironico, dissacrante, dotato di quel coraggio di mostrarsi anche nelle contraddizioni che non è esibizionismo ma amore di verità, capace di ricominciare ogni volta ed esserci tutto, là dove stava. Ecco perché è stato in grado di passare, lui sociologo laureato all’Università di Trento, dall’impegno giovanile in Lotta Continua agli anni «indiani» nell’ashram di Puna con Bhagwan, per poi fondare nell’entroterra trapanese Saman, una comunità prima di arancioni e poi di recupero di tossicodipendenti. Siamo negli anni ‘80 e per aiutare i ragazzi a reinserirsi nella società, Rostagno tiene una trasmissione in una piccola rete locale; si appassiona al lavoro del giornalista e scava in profondità nel torbido fondo trapanese cavandone fuori nomi, legami, connessioni scomode. In meno di due anni arriva a ridisegnare la mappa dei poteri occulti del territorio: ‘na camurria, insomma, per usare le parole di Ciccio Messina Denaro, allora boss di Castelvetrano.

E così la mafia lo ferma, a colpi di lupara, a soli 46 anni. L’impressione oggi è che in molti siano stati a lungo sicuri dell’impunità dell’omicidio. Si capisce dall’arroganza con cui si sono mossi alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine, a partire dai Carabinieri che all’epoca misero subito da parte la pista mafiosa, fino all’insinuazione che fossero gli ex-compagni di Lc ad aver voluto la morte di Rostagno «perché sapeva troppo della faccenda Calabresi»; per non parlare dell’incarcerazione di Chicca Roveri nel ‘96 con l’accusa di essere lei la mandante dell’omicidio (poi scagionata dalle dichiarazioni di alcuni pentiti). Dei depistaggi si occuperà ora la Procura, a cui la Corte di Assise ha rinviato gli atti processuali di ben dieci testi (tra i quali un maresciallo dei Carabinieri), sospettati di falsa testimonianza.

In questo regno dell’impunità plateale che è l’Italia, alla mafia e ai suoi complici deve essere sembrato un gioco da ragazzi passare sopra l’assassinio e la memoria di Mauro Rostagno; la sua vita, così libera e capace di un impegno profondo ma fuori dagli schemi, era inclassificabile per i benpensanti; a piangerlo erano rimaste due donne – la compagna di una vita e la figlia adolescente – che si supponevano smarrite e che ben si poteva pensare di sotterrare sotto una valanga di fango. Ucciso Rostagno, andava liquidato anche il ricordo della sua battaglia culturale, andavano distrutti non solo la pianta ma anche i semi di cambiamento che aveva gettato in un territorio che soltanto se è assoggettato può servire al malaffare. Non ci sono riusciti: ecco perché questa sentenza, arrivata il giorno del 41° compleanno della figlia Maddalena, è importante anche a 26 anni di distanza. Mauro Rostagno era un servitore dello Stato e con la sua rivoluzione allegra, la sua serietà lieve, ha permesso a chi è venuto dopo di lui di non perdere la speranza e di continuare a pensare che impegnarsi per la legalità e un paese migliore abbia un senso.

Federica Tourn

Tratto da: http://www.riforma.it/


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