Quando un appartamento salva le vite

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img-_innerArt-_paola bonziLa storia del nostro Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli è diventata lunga lunga. Infatti, in autunno, saranno trent’anni di servizio alla maternità. Innumerevoli sono i ricordi e, tra loro, anche qualche rimpianto.

Una delle opere che rimpiango è sicuramente quella che ci dava la possibilità di accogliere coppie e piccoli nuclei familiari che avevano rinunciato ad abortire, presso una palazzina, assolutamente indipendente, con un piccolo giardino dove erano stati posizionati anche giochi per i bambini. La costruzione era di tre piani e gli appartamentini, dodici. Alcuni, tre, erano monolocali e gli altri nove, bilocali. Li avevamo arredati con mobili uguali ma, alternativamente, di colore verde salvia e beige.

C’eravamo dati un ‘gran da fare’ per corredarli di tutto, dalle posate alla biancheria da letto. Era luglio, quella volta, e maneggiare coperte, piumini e simili, ci procurava notevole calore, quasi senso di soffocamento. Eravamo, però, così contenti che aprivamo gli scatoloni di ciò che avevamo raccolto, con grande allegria.

La parola d’ordine era che non si dovesse spendere se non per lo stretto indispensabile e lo stretto indispensabile era costato veramente molto. Come al solito eravamo senza fondi e le ristrettezze erano la condizione normale in cui muoverci.

A Milano, ma credo in tutta Italia, non esisteva un progetto di accoglienza alla coppia. Il nostro, dunque, era un progetto pilota e tanti sono stati i bambini nati per questo nostro atto coraggioso che non ha trovato riscontro nella pubblica amministrazione. Speravamo, infatti, di accogliere per qualche tempo, due anni al massimo, e di avere poi accesso alle case popolari. Non ci siamo riusciti.

I ricordi più particolari sono quelli delle feste per le ricorrenze di Pasqua, Natale, Carnevale, Giorno della mamma, e per i vari compleanni. Le etnie erano diverse e diversi e variegati anche i cibi portati sulla tavola comune del grande locale sottostante i tre piani della palazzina. Ai giochi di società e intrattenimenti, si intrecciavano con regolarità, incontri di gruppo guidati, dove a ciascuno era chiesto di far circolare le proprie emozioni, sentimenti, ricordi, narrazione di tradizioni, al fine di creare un patrimonio condiviso.

In questi spazi comuni erano anche stati allestiti una biblioteca e dei laboratori per la lavorazione di manufatti che potevano essere assemblati, nonostante la presenza dei bambini che, man mano, arrivavano. Non posso evitare un po’ di magone ripensando a tutto ciò, che resta come un punto luminoso della nostra storia, anche se non siamo riusciti a sopravvivere più di dieci anni.

Mi piace, quindi, condividere la storia di uno di questi gruppi familiari accolti al Residence, racconto che mi strappa sempre un largo sorriso. Quella volta si trattava di una coppia di coniugi afghani; si trovavano da pochissimo in Italia, avevano già due figli maschi e la signora si era scoperta incinta appena arrivata. Alla Stazione Centrale, qualcuno aveva dato loro il nostro indirizzo, visto che, soprattutto, non avevano casa.

Arrivarono molto impacciati, dovendo parlare in una lingua piuttosto sconosciuta e, tramite questa, chiedere aiuto. I due bambini erano bellissimi e gli adulti molto gentili. Nel solito modo rocambolesco, riuscii non solo a comprendere le loro difficoltà ma anche a fare una proposta di accoglienza se avessero deciso di accogliere, a loro volta, il bambino che Mira portava in grembo. Mira e Rangian si consultarono; ricordo che andai con i bambini in un’altra stanza perché potessero parlarsi con tranquillità e, infine, mi comunicarono che si erano trovati d’accordo nel dare nuovamente la vita.

Così li accogliemmo nel nostro ‘Residence dei Fiori’ e la gravidanza andò avanti. Arrivò anche il momento del parto: era una bambina. Colmi di felicità me li ritrovai, con Mira ancora in vestaglia perché ricoverata, nel mio studio. «Che cosa ci fate qui?» dissi sorridendo. «E’ nata la nostra bambina e dobbiamo mettere nome!  Al nostro paese quando una persona aiuta la mamma, si chiede nome a lei.  Come si chiama tua figlia?»

Cominciai a sentire piccole gocce di sudore sulla fronte: sapevo che erano di religione musulmana e mia figlia si chiama Cristiana; eravamo all’assurdo! Tergiversai dicendo che ci saranno stati bellissimi nomi, magari di fiori o di altre cose belle, nella loro lingua, ma l’insistenza non accennava a diminuire. Imbarazzatissima, finalmente, comunicai il nome di mia figlia dicendo che non erano affatto obbligati, e che decidessero pure diversamente.

Grandi sorrisi e molti consensi sul nome; «Cristiana!», dicevano di sì stringendomi le mani.
La cosa più buffa fu di qualche giorno dopo; raccontando l’accaduto in segreteria, dove registriamo i nomi dei ‘nostri’ bambini, venni a sapere che, come spesso è accaduto nella vita di mia figlia, anche quella volta ‘Cristiana’, per errore, era diventato ‘Cristina’, nell’uso normale decisamente meno connotato. Tirai un gran respiro di sollievo ringraziando la buona sorte e ridendo di tutte le mie perplessità.

Fonte: http://www.lanuovabq.it/


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