«Sì, sono un militare che è stato ferito in modo permanente dai ribelli. Ma li ho perdonati e sono d’accordo con la politica dell’amnistia. Perché questo è il modo per far rivivere la Siria della convivenza di una volta».
HOMS. Per comodità lo chiameremo Omar. Adesso che nella sua città è appena esplosa un’autobomba, nel quartiere residenziale di al-Zhara, comprendiamo meglio la sua ritrosía al momento delle presentazioni. La foto, poi, era da evitare anzitutto per un evidente motivo diverso dalle ragioni di sicurezza personale. Metà della faccia di Omar è sfigurata dalle schegge di un’esplosione di uno dei tanti scontri fra forze regolari e ribelli dentro alla città di Homs e nei suoi dintorni. Adesso, ufficiale dell’esercito siriano, lui è il responsabile militare del Centro di identificazione dove sono stati concentrati 560 uomini fra i 15 e i 54 anni di età. Presunti ex ribelli per default, potremmo definirli. A metà del febbraio scorso, mentre a Ginevra la conferenza di pace offriva lo spettacolo di un dialogo fra sordi, qui a Homs governatore, Mezzaluna Rossa e Nazioni Unite si accordavano per una tregua che avrebbe permesso a centinaia di civili di sottrarsi all’assedio a cui il quartiere del centro storico è sottoposto da ben due anni. Coi civili – donne, bambini e uomini sopra i 54 anni – sono usciti fuori dalla città vecchia anche centinaia di soggetti che solo con molta ipocrisia si sarebbero potuti definire civili intrappolati. I 560 maschi fra i 15 e i 54 anni che si sono uniti all’esodo hanno molto probabilmente partecipato alla rivolta armata, ed è stato loro permesso di uscire dalla zona dei combattimenti sulla base di un ulteriore accordo: amnistia onnicomprensiva in cambio dell’impegno scritto a non prendere mai più le armi contro il governo e a dichiarare veracemente tutto quello che hanno fatto nei lunghi mesi dell’assedio. C’è chi ha raccontato come e perché ha preso le armi contro il governo e c’è chi – la maggior parte – è stato molto economico con la verità, e ha spiegato di essere rimasto bloccato dentro al quartiere per le ragioni più varie e di non avere mai partecipato a combattimenti. Quasi tutti hanno dichiarato di avere usato le armi perché non avevano alternative, sotto costrizione o per poter accedere all’acqua e al cibo – monopolizzati dai ribelli – per sé e per la propria famiglia. La verifica della verità dei fatti ovviamente allo stadio attuale non è possibile, ma alla fine non è questo che importa. Al governo importa che ribelli e sospetti ribelli si impegnino a non intraprendere d’ora in avanti azioni ostili contro il potere costituito, e ai fuoriusciti della città vecchia importa di non essere arrestati e torturati adesso che ritornano nel territorio sotto il controllo governativo.
Non è solo un problema di lealtà alla parola data, da parte degli ex ribelli come da parte dello Stato. Lo Stato non è un’entità astratta: è fatto di persone in carne ed ossa. È fatto da decine di migliaia di soldati che da tre anni a questa parte rischiano la vita tutti i giorni, combattono una guerra crudele, spargono sangue e lo vedono spargere. Cosa pensate che provi un soldato che ha visto la morte in faccia, che ha visto cadere al suo fianco commilitoni e amici, che sa che alcuni suoi camerati sono stati fatti prigionieri e poi sgozzati, quando vede sfilare una catena di centinaia di ribelli disarmati? Omar, per esempio. Una scheggia di mortaio lo ha sfigurato. Ma quando gli chiedo cosa prova a dover sovrintendere la vita quotidiana di gente che fino a poche settimane fa era solidale con quelli che lo hanno menomato per sempre, risponde: «Sì, sono un militare che è stato ferito in modo permanente dai ribelli. Ma li ho perdonati e sono d’accordo con la politica dell’amnistia. Perché questo è il modo per far rivivere la Siria della convivenza di una volta. Se accettano di tornare sulla vera via dell’islam, io li perdono».
Islam e perdono vanno a braccetto? Chi guarda da lontano non lo crede possibile. Ma in Siria il primo personaggio che ha proposto il perdono come via di uscita da quella che già allora stava assumendo le sembianze di una feroce guerra civile è stato niente meno che il gran muftì, cioè la massima autorità nazionale islamica sunnita, che è poi la religione praticata da oltre i due terzi dei siriani. Ahmad Badreddin Hassoun, il capo religioso di tutti i sunniti della Siria, il cui figlio 22enne fu assassinato in un’imboscata nei pressi di Aleppo nell’ottobre 2011 per rappresaglia contro l’allineamento del padre sulle posizioni del governo, pronunciò il suo perdono già al momento del funerale del figlio. Spiegò che Maometto non stabilì di uccidere i colpevoli di omicidi, ma affidò la loro punizione a Dio. E ribadì il perdono quando qualche tempo dopo incontrò alcuni dei colpevoli arrestati dalle forze di sicurezza. In un’intervista concessa a Gian Micalessin per RaiNews24, Hassoun dice: «Dio insegna a perdonare anche quelli che combattono contro di noi. Per questo ho detto a chi ha ucciso mio figlio “Io vi perdono”. E chiedo a tutti quelli che hanno subìto la stessa tragedia di perdonare. Questo non vuol dire che sia giusto lasciar liberi gli assassini: bisogna punirli, ma anche imparare a non uccidere chi ha ucciso».
Oggi il perdono è diventato la politica ufficiale del regime: a tutti i ribelli che depongono le armi e firmano un impegno scritto, lo Stato concede l’amnistia, fornisce una nuova carta d’identità e, a chi lo richiede, anche il passaporto per trasferirsi all’estero. Homs ha fatto da battistrada.
Il nostro Rodolfo Casadei (al centro nella foto) a Homs
Visitiamo il Centro di identificazione creato per l’occasione e diretto dal comandante Omar in un mercoledì di fine febbraio. Si tratta di un edificio scolastico in discrete condizioni, che presenta danni causati dai combattimenti solo all’esterno: la facciata di tre piani che dà su un cortile separato dalla strada da un muro di cinta presenta molti fori di proiettile di vario calibro e più nessun vetro intatto. Un grande schizzo scuro irregolare, come di acqua caduta a grande velocità che abbia lasciato la sua impronta sul cemento, risalta nel mezzo del cortile: è il segno lasciato da un colpo di mortaio caduto qui dentro durante uno dei tanti combattimenti che da quasi tre anni tormentano Homs. Il piazzale è per due terzi vuoto e per un terzo affollato di uomini fra i venti e i quarant’anni vestiti molto casual: tanti in tuta sportiva, o con giubbotti di finta pelle o impermeabili, alcuni coi pantaloni di jeans. Si vede che sono passati tutti per le mani di un parrucchiere, perché barbe e baffi sono molto comuni, ma corti e ben curati. Le calzature variano da quelle sportive a sandali molto precari per la temperatura corrente a fine febbraio. Chiacchierano fra loro e si lasciano fotografare senza opporre resistenza, gettando occhiate fintamente distratte. Infatti un ragazzo si avvicina: «A nome di mio zio, che lei ha ripreso nell’inquadratura, la devo informare che lui non è collegato a queste persone ed è qui per altri motivi».
Dentro, in una stanza piccola e affollata, dove entrano continuamente elementi del personale per ogni genere di comunicazione, Omar ci fa conoscere un imam e altri responsabili del centro incaricati della “rieducazione” degli ex guerriglieri. «Invitiamo qui docenti universitari e figure religiose per rieducarli prima del loro ritorno nella società», dice il militare. «Sono corsi di qualche giorno. Vengono qui vari enti umanitari, siriani e stranieri, che li assistono in vari modi. Ci sono stati programmi alimentari per i più denutriti e cure mediche per chi ne aveva bisogno. Nello stesso tempo i servizi di sicurezza li interrogano e preparano un dossier dove loro dichiarano le loro responsabilità. Alcuni hanno paura di firmare queste dichiarazioni, ma io e l’imam di turno li rassicuriamo sul fatto che l’amnisti è già stata decisa e che non hanno nulla da temere». L’imam, un uomo con la barba grigia e una shashia bianca per copricapo, spiega il suo ruolo: «Questi uomini hanno assorbito una mentalità sbagliata. Qui predichiamo loro un islam di pace e convivenza, per cacciare via l’integralismo dalle loro teste. Non esistono un islam giusto e uno sbagliato, esiste un solo islam, ed è quello che si muove sulla via del profeta Maometto e dei suoi valori». Alla domanda su chi sia stato a corrompere la fede religiosa di tutti abitanti di Homs il religioso risponde: «Non è un segreto che Qatar, Arabia Saudita e i loro alleati hanno cercato di rompere l’islam prima dall’interno, e poi dall’esterno. Anche in Siria, come in altri paesi, sono arrivati sedicenti intellettuali e studiosi islamici a predicare la necessità di tornare all’islam delle origini, il vero islam. Lupi travestiti da religiosi! Così la gente semplice è stata confusa, i bravi musulmani si sono deviati. Ora questi che sono qui capiscono tutta la differenza che c’è l’insegnamento che li ha sedotti e quello che riflette il vero islam». L’imam si fa un vanto di avere studiato le scienze religiose solo in Siria senza andare all’estero: «L’islam siriano è antichissimo, la sua tradizione di studi è consolidata: non c’è nessun bisogno di andare a studiare in altri paesi». «La prima richiesta che gli ospiti ci fanno è quella di riavere la loro carta d’identità: è andata perduta durante l’assedio o è rimasta nelle mani dei capi dei ribelli», spiega Omar. «La seconda richiesta riguarda le loro famiglie: spesso sono anch’esse intrappolate in quartieri ad alto rischio, e loro chiedono di farle uscire da lì e di riunirsi con loro in luoghi sicuri. Infine, chiedono un salvacondotto per non essere fermati o arrestati da esercito e servizi di sicurezza ai posti di blocco. Noi glielo diamo e gli spieghiamo che se saranno convocati per interrogatori non devono spaventarsi: alla fine li rilasceranno certamente».
Saliamo le scale e sbirciamo nelle aule scolastiche trasformate in dormitori. Decine di materassini di gommapiuma e di coperte grigie ricoprono i pavimenti. Dentro, gente che poltrisce, fuma o gioca a carte, tutti accovacciati a terra. Il nostro ingresso suscita curiosità, i giocatori sospendono la loro partita e si informano di noi. Non facciamo domande provocatorie, ci interessiamo alle loro condizioni di vita nei lunghi mesi di assedio. «Sai perché adesso fumiamo sempre? Perché quando eravamo “dentro”, una sigaretta costava 6 mila lire! (30 euro – ndr) Un pacchetto 90 mila! (450 euro)». Non come il bene voluttuario e peccaminoso rappresentato dal tabacco, ma anche i prezzi dei generi di prima necessità erano esorbitanti, perché le principali milizie ribelli controllavano i rifornimenti e la loro distribuzione: decidevano loro chi premiare e chi far pagare salato. «Se volevi mangiare, dovevi stare dalla loro parte», dicono alcuni in coro. È la giustificazione più ricorrente. «Quando è cominciato l’assedio, io mi sono rifiutato di uscire perché volevo aiutare la gente dentro al quartiere», spiega poco credibilmente un uomo avanti negli anni con una kefiah bianca e rossa attorno alla testa. «Ma dentro è stato terribile. C’erano una decina di gruppi ribelli diversi, non sempre andavano d’accordo fra loro. Ognuno voleva imporre la sua idea della pratica islamica. A parte il cibo scarso, vedevo tutti i giorni morire gente che veniva seppellita in fosse senza nome, feriti che per mancanza di mezzi per curarli venivano amputati, soldati fatti prigionieri e giustiziati con un colpo alla nuca. Così ho deciso di fuggire, ma la prima volta mi hanno ferito», dice mostrando una cicatrice in una coscia. «Andarsene era quasi impossibile», racconta un altro, un uomo avanti con l’età. «C’è un capo, Abu Sbeli, che ha ucciso sia civili che volevano lasciare la città vecchia e trasferirsi nelle zone governative che combattenti sospettati di voler disertare. C’è un sistema di tunnel che permette di attraversare buona parte del quartiere, ma per i feriti e gli anziani è molto difficile da utilizzare, perché ci sono alcuni passaggi molto stretti. E poi ci sono comunque dei tratti all’aperto, sotto il fuoco dei cecchini. C’è un prato attraversando il quale sono morte parecchie persone».
«Nella città vecchia ci sono ancora duemila civili che vorrebbero poter uscire», assicura un altro. Nessuno dice un parola sul numero dei ribelli ancora asserragliati nel quartiere. Solo uno fa capire che sono calati di numero: «Negli ultimi tempi i turni di servizio erano di 6 ore, fino a qualche tempi prima erano solo di 4 ore».
Nel primo pomeriggio ci trasferiamo presso un altro istituto scolastico di Homs. Qui l’edificio è perfettamente intatto e nelle classi si stanno svolgendo le lezioni. Ma l’aula magna è riservata a un’importante cerimonia: 60 ospiti del Centro di identificazione saranno liberi di prendere il volo al termine di una cerimonia che celebra la loro “rieducazione” e il loro reinserimento nella società. Partecipano il governatore di Homs Talal Barazi, il muftì della città e il comandante della piazza militare. Quando gli ex ribelli hanno preso posto nella platea e il governatore non è ancora arrivato, prendono la parola prima un responsabile amministrativo, al quale i presenti rivolgono richieste per bisogni materiali, e dopo di lui il muftì. Non fa un discorso dai contenuti religiosi (che l’islam è una religione di pace e che rispetta l’autorità costituita i convenuti se lo sono sentiti ripetere qualche decina di volte dagli imam che hanno tenuto le lezioni presso il centro), ma cerca di rassicurare i presenti: «Dovete essere sinceri e dovete rispettare la parola data. Non porgete l’orecchio alle voci, tanto meno a quei mezzi di comunicazione elettronica che scriveranno che sarete convocati dai servizi segreti e uccisi. Non andate dietro ai sentito dire. Seguite con fiducia la strada del Profeta, e contribuite a ricostruire Homs».
Seguono una serie di interviste da parte di due tivù inviate a coprire l’evento. Una è la tivù nazionale, l’altra sembra la libanese Al Manar, proprietà di Hezbollah. Gli ex ribelli rispondono rilassati alle domande, da lontano non riusciamo a sentire cosa dicono. Di tutti i 60 presenti, solo uno si copre la faccia per non essere riconosciuto dai telespettatori. Alla fine arriva il governatore, e tutti si alzano in piedi ad applaudire. Adesso gli ex ribelli si mostrano addirittura sorridenti, mentre poco prima l’espressione era fra il serio e l’annoiato. La scenografia a questo punto vede i tre rappresentanti dell’autorità – governatore, muftì e comandante militare – in piedi dietro a un tavolo sul quale è posato un bouquet di fiori; dietro di loro ci sono una bandiera siriana dispiegata e una grande foto del presidente Bashar El Assad. Il governatore pronuncia il suo discorso restando in piedi. «Appartenete alla nostra stessa famiglia, la patria è per tutti», esordisce Barazi. «Abbiamo previsto che la riconciliazione percorra questa strada, e l’abbiamo imboccata. I problemi della Siria si possono risolvere. Alcuni di voi hanno voluto seguire chi ha creato molti di questi problemi, ma noi li abbiamo perdonati. Applicando il principio che il muftì prima ha enunciato: per riconciliarsi con gli altri, prima dobbiamo riconciliarci con noi stessi. Tutti facciamo degli errori, e tutti abbiamo diritto a una seconda possibilità. Ho firmato personalmente la riammissione al lavoro di un dipendente comunale che da due anni non lavorava perché si era unito ai ribelli. Chi lavorava deve tornare al suo lavoro, gli studenti devono tornare a studiare. Ci aspettiamo che qualcuno di voi sbaglierà ancora, e a quel punto pagherà tutte le sue colpe. Non ci sarà un’altra amnistia per costoro. Per quanto riguarda il vostro futuro, potete restare in Siria o espatriare, avrete il vostro passaporto: fate quello che preferite. Noi siamo convinti che voi farete bene, che contribuirete alla ricostruzione del paese, a rifare di Homs il mosaico di convivenza che era. Nessuno ha il diritto di dire che lui è più patriota di voi. Voi siete stati davvero coraggiosi, perché prima che veniste da noi vi hanno detto che avreste trovato l’inferno qui, e voi siete usciti dalla città vecchia senza la certezza di quello che avreste trovato. Anche adesso, ci sono fonti informative che scrivono che voi siete stati maltrattati e torturati nei centri di identificazione! La verità è che il capo dello Stato ha ordinato di assistervi, in particolare per le eventuali cure mediche».
Anche il governatore è consapevole che la paura più grande degli ex ribelli è che lo Stato cambi idea su di loro e li butti in prigione, o che l’amnistia sia una trappola per eliminarli tutti. «Se gli organi di sicurezza vi convocano, non abbiate paura», spiega. «Se succede qualcosa di spiacevole, chiamatemi o fatemi chiamare. Se non volete andare al posto di polizia dove siete stati convocati, andate in un altro di vostra scelta. L’amnistia è stata decisa con l’accordo di tutti i servizi di sicurezza dello Stato, se le quattro entità non avessero dato la loro approvazione oggi non verreste liberati». Le quattro entità sono l’intelligence militare, quella dell’aeronautica, la sicurezza generale e la sicurezza politica. «I controlli sono necessari», prosegue. «Prima della rivolta c’era grande libertà di movimento in Siria, adesso ci sono 60 mila combattenti stranieri sul nostro suolo (la cifra appare sovrastimata – ndr), e dobbiamo somministrare gli antibiotici per eliminare questi vermi!». Ogni tanto due soldati col mitra imbracciato fanno capolino sulla porta dell’aula magna. Guardano l’uditorio con aria sospettosa e sguardo indagatore. Non sembrano contenti di vedersi passar sotto il naso così tanti ribelli -pardon: ex ribelli- senza poter fare nulla. Quando la cerimonia sta per concludersi, un massiccio uomo del pubblico che ha avuto accesso alla sala prende la parola di sua iniziativa e pronuncia un discorso allarmistico. Dice che non appena i 60 uomini avranno lasciato la sede della scuola, cominceranno indagini di polizia su di loro e probabilmente saranno arrestati. Il mufti e il governatore ribattono che non è vero, che si tratta di voci senza fondamento. La surreale discussione va avanti qualche minuto, poi la cerimonia finisce con applausi così com’era iniziata.
All’uscita Barazi fa in tempo a rilasciare una dichiarazione a Tempi sulle condizioni di sicurezza in città: «Il 95 per cento del territorio è sotto controllo, contiamo di riaprire entro la fine dell’anno il suk nella città vecchia. Gli studenti tornino all’università, i negozianti riaprano i loro negozi: la vita deve riprendere». Parole pronunciate prima dell’attentato del 17 marzo. Fuori, nel cortile d’ingresso della scuola che dà su un ampio viale, si forma qualche capannello di ex ribelli che confabulano prima di allontanarsi. Ce ne sono alcuni, molto giovani, attorno a un militare in divisa mimetica che per l’età potrebbe essere il loro padre. Sembra stiano parlando di indicazioni stradali, o di come raggiungere qualche località in particolare. Dopo un po’ si salutano con naturalezza noncurante, e ciascuno va per la sua strada.
Fonte: http://www.tempi.it/
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