In Italia il tema è stato introdotto dal libro Heranush, mia nonna. Il destino di una donna armena (Alet edizioni 2007) di Fethiye Çetin, l’avvocatessa che difese in tribunale il giornalista Hrant Dink, accusato di offesa all’identità turca per i suoi articoli sul genocidio degli armeni e poi assassinato da un fanatico nazionalista nel 2007. Çetin era una giovane studentessa di giurisprudenza all’Università di Ankara quando un giorno sua nonna le svelò il segreto che aveva custodito per 60 anni: era un’armena cristiana, sottratta nel 1915 ai suoi genitori da un ufficiale turco, che poi l’aveva cresciuta in famiglia. Quel rapimento l’aveva salvata dalle marce della morte, la deportazione in cui masse di armeni perirono tra sofferenze indicibili. Ma, lei che era stata battezzata come Heranush, diventò da quel momento un’altra: Sehar, turca e musulmana. La testimonianza di Çetin, che ha fatto scalpore ed è stata tradotta in più lingue, è solo un frammento di una realtà complessa che sta tornando alla luce dopo quasi un secolo di oblio.
Il fatto che ci furono migliaia di bambini armeni strappati alle loro famiglie, orfani cristiani allevati da musulmani, donne che scamparono al massacro finendo per sposare gendarmi turchi è sempre stato noto. Nel 1919 il patriarca armeno di Istanbul, Zaven Ter-Eghiyan, chiese alle autorità dell’Impero ottomano che fossero restituiti alle proprie famiglie o comunque al proprio popolo gli armeni rimasti in Turchia. Venne creata una commissione apposita per rintracciare i dispersi. Molti riuscirono a tornare in Armenia o nelle comunità della diaspora, molti no. In un rapporto stilato dal Patriarcato nel 1921, inoltrato anche al Dipartimento di Stato americano, si parlava di 63 mila orfani rimasti presso famiglie turche, numero confermato da un’indagine della Lega della Nazioni. Quello che è invece rimasto a lungo ignoto o semi-sconosciuto è cosa ne è stato in seguito di questi armeni islamizzati.
Negli ultimi anni il silenzio è stato rotto soprattutto da coloro che hanno voluto riappropriarsi della propria identità. Alcuni lo hanno fatto con discrezione, tornando a frequentare la chiese una volta trasferitisi dall’entroterra rurale in grandi città come Istanbul e Ankara. Altri hanno dichiarato la propria origine cambiando nome, questo soprattutto all’estero, ma non solo. Nel 2008 Kazim Akinji, un musicista di Malatya, nell’Anatolia orientale, ha voluto comunicare ufficialmente di essere armeno di origine, non turco, e di voler tornare alla religione cristiana dei propri padri, chiedendo alla Corte suprema di poter cambiare il proprio nome in Sargis Nersisyan. Una presa di posizione maturata dopo l’omicidio di Hrant Dink e ripresa dai più importanti media nazionali. Ahmet Abakai, giornalista e presidente in Turchia dell’Associazione giornalisti progressisti, ha da poco dato alle stampe
Le ultime parole di Hosana, un libro in cui racconta di quando la madre a 82 anni, poche settimane prima di morire, gli rivelò di essere anche lei un’armena sopravvissuta al genocidio. Era stata abbandonata davanti alla casa di un turco alevita e per tutta la vita aveva taciuto la sua identità, per paura. Ma nel solo 2013 sono state più di una decina in Turchia le pubblicazioni che hanno affrontato il tema, segno che, nonostante le tensioni persistenti (Abakai è stato attaccato dai suoi parenti per aver oltraggiato l’onore della famiglia e molti armeni denunciano ancora un clima di intimidazione nei loro confronti) qualcosa sta cambiando nell’opinione pubblica. E un segno in questa direzione è anche la grande conferenza sugli “armeni islamizzati” che si tiene a Istanbul da sabato prossimo a lunedì, organizzata dalla Fondazione Hrant Dink. È la prima del genere in Turchia e la prima a riunire i maggiori specialisti del problema.
Come Fethiye Çetin, Ayse Gül Altinay, docente all’Università Sabanci di Istanbul, che con Çetin ha pubblicato una raccolta di testimonianze di armeni cresciuti come curdi o turchi, lo storico turco Selim Deringil e il libanese Vahé Tachjian, che ha studiato il destino delle donne armene dopo il 1915 tra Turchia e Medio Oriente. Tra loro ci sarà pure Avedis Hadjian, giornalista argentino che vive negli Stati Uniti, che sta per far uscire un libro dal titolo Una nazione segreta: gli armeni nascosti di Turchia, frutto di una lunga indagine sul campo in cui ha documentato l’esistenza di migliaia di armeni “figli del genocidio”, molti integrati e diventati sinceramente aleviti o sunniti, altri legati ancora alle loro radici. Tra questi anche sparute famiglie e piccole comunità discendenti di famiglie e comunità che per scampare al massacro simularono una conversione all’islam, conservando nel chiuso delle proprie case la fede cristiana. Cripto-armeni la cui vicenda ricorda per paradosso un’altra storia molto nota in Turchia, quella dei Dunmeh: cripto-ebrei seguaci del “messia” Sabbatei Zevi (1626-1676), convertiti come lui in modo fittizio all’islam e che assunsero un ruolo determinante tra i “Giovani Turchi”.
Del resto un indizio, se non una prova dell’esistenza di veri e propri cripto-armeni, era arrivato dopo il devastante terremoto dell’ottobre 2011 nella provincia di Van. Scavando tra le macerie, come riportato in quei giorni da un’agenzia armena, non solo erano affiorati numerosi oggetti devozionali cristiani, ma sotto le abitazioni di musulmani di origine armena erano state scoperte delle cappelle.
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