Abbiamo scoperto questo libro* (e il suo autore) grazie a una felice iniziativa del «Circolo dei lettori» di Torino. L’autore, David W. Ellwood, relativamente giovane, insegna a Bologna nell’Università e in una sezione distaccata della John Hopkins University e ha dedicato parecchi anni della sua vita a un problema che gli sta molto a cuore: come mai gli Stati Uniti d’America, che sono una società – figlia della civiltà europea –, da cent’anni esercitano un’influenza decisiva sulla loro società-madre, tanto che il Novecento viene spesso definito come un «secolo americano»? Da buon anglosassone, Ellwood non dà una risposta generale a questa domanda, ma si limita a «narrare» il fenomeno che gli interessa.Il «secolo americano» comincia in realtà alla fine dell’Ottocento con una sua smagliante vittoria nella guerra contro la Spagna (1898): eroe di questa guerra sarà Theodore Roosevelt (futuro Presidente, nemico del big business): i risultati saranno l’indipendenza (?) di Cuba, l’annessione di Puerto Rico e la conquista delle Filippine. Ciò malgrado, Th. Roosevelt sarà mediatore di pace tra Russi e Giapponesi dopo la guerra del 1904, e per questo riceverà il Premio Nobel.
Tutti i Salmi finiscono in gloria, dunque: in realtà, l’attuale «egemonia americana» è figlia di tre guerre di dimensioni mondiali, e dei relativi dopoguerra: la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda (1947-1989). Nella Prima Guerra emerge la figura del presidente Wilson: figlio di pastore e pio presbiteriano, Wilson è convinto che l’America abbia una missione: quella di portare ordine e pace in un mondo dominato dall’egoismo e dalla violenza. Manda perciò due milioni di giovani americani a rischiare la vita nelle trincee di quella Francia che nel 1781 ha salvato la libertà degli Stati Uniti. Alla fine, Wilson otterrà solo la nascita della debole «Società delle Nazioni» (madre della nostra Onu), e vedrà la sua patria rinchiudersi in un feroce isolazionismo: è l’America che respinge gli immigrati e condanna a morte Sacco e Vanzetti.
Malgrado le apparenze, l’America degli anni 20 è però ricca di capacità creative: a Detroit Henry Ford crea la prima grande industria moderna: è nato il cosiddetto «fordismo». L’unico europeo che lo ha veramente capito è stato Antonio Gramsci. Nello stesso tempo è cresciuto in America un neonato piuttosto vigoroso (e capriccioso), il cinema: per un secolo Hollywood fornirà a tutto il mondo sogni, simboli, miti, e perfino idee: la «cultura di massa» americana finirà per diventare egemone nel mondo.
Ma la dura America degli anni 20 non è insensibile al «grido di dolore» che le arriva dall’Europa rovinata dalla Guerra: un’enorme attività di aiuto e di sostegno viene affidata all’ingegner Herbert Hoover, a cui interessano soprattutto i milioni di bambini affamati, anche se vivono in un Paese governato dai comunisti: anzi, egli si oppone fermamente a quegli inglesi e francesi che brigano per scatenare una «crociata antibolscevica». Ma lo stesso Hoover, diventato presidente degli Stati Uniti, non sarà in grado di far fronte alla terribile crisi del 1929, scatenata (anche quella) dalle stoltezze di Wall Street.
È giunta l’ora di Franklin Delano Roosevelt (cugino di Theodore). «I mercanti sono stati scacciati dal tempio», dice nel suo discorso inaugurale, e chiede che gli si affidino gli stessi poteri che avrebbe in caso di guerra: così ottiene – per quattro volte consecutive – un vero e proprio mandato popolare, ma anche il consenso di grandi intellettuali come l’economista Keynes e il teologo Niebuhr. Roosevelt prende nelle sue mani il rilancio e la guida dell’economia americana, ma guarda lontano: è un liberale, ma non ha paura di Stalin (che lo contraccambia con la più viva stima); semmai lo preoccupano i fascismi italiano, tedesco e giapponese.
E, infatti, il 7 dicembre 1941 i giapponesi distruggono metà della flotta americana del Pacifico; Italia e Germania dichiarano la guerra: in America il faticoso rilancio industriale degli anni 30 si trasforma in una inaudita mobilitazione di guerra: 120. 000 aerei e altrettanti carri armati. Roosevelt non è uno di quei «profeti disarmati» che attiravano le ironie di Machiavelli; ma una certa qual vena profetica Roosevelt ce l’ha: mentre prepara e poi chiude la guerra antifascista, lancia la Carta atlantica e le «Quattro libertà», e soprattutto conduce l’operazione che è fallita a Wilson: la nascita delle «Nazioni Unite» (1945). La «filosofia» del presidente Roosevelt è molto chiara: democrazia e benessere sono due cose che vanno insieme: anzi, devono andare insieme, senza dimenticare lo sviluppo della scienza e della tecnologia (ivi compresa l’energia atomica…).
Roosevelt, però, muore poche settimane prima della fine della Guerra, e quasi subito comincia la Guerra Fredda, che è durata fino al 1989, e come è noto è stata vinta dagli americani. Come è stata vinta? Anzitutto con un programma di intervento economico e industriale nell’Europa occidentale: il «Piano Marshall», che è un’applicazione all’estero delle idee e dei programmi del New Deal rooseveltiano (benessere + democrazia). In secondo luogo, nella seconda metà del Novecento la società americana ha dimostrato un’inventiva e vitalità produttiva pari a quella degli anni 20: Microsoft è oggi quello che la Ford era allora. Ma non si producono solo nuove invenzioni e nuove produzioni: si producono anche idee: a questo pensa ancora una volta Hollywood, a cui si aggiungono l’onnipresente televisione e una (per me) terribile musica popolare.
Il «secolo americano» ha raggiunto il suo culmine con la presidenza Clinton (1992-2000): benessere e democrazia sembravano convivere amichevolmente. Ma con l’11 settembre 2001 tutto è cambiato: la distruzione delle Torri Gemelle (e di 3000 vite umane), lo stolto attacco all’Afghanistan, l’ancor più stolta seconda guerra all’Iraq, e gli orrori di Guantanamo hanno lesionato il mito americano: e a tutto ciò si è aggiunta nel 2007-2008 una crisi di Wall Street quasi peggiore di quella del 1929.
L’autore fa però notare che l’elezione (e la rielezione) di Barack Obama può essere considerata come una dimostrazione della capacità di reinventarsi, tipica della società americana. Se così fosse, l’Europa dovrebbe abituarsi all’idea che l’America ci presenta una proposta di modernità diversa dalla nostra: come non raccogliere la sfida?
Ci sono due piccoli fatti che David Ellwood segnala con una punta di benevola malizia: ai tempi di Mussolini, nelle case contadine del Mezzogiorno si potevano vedere dei ritratti di F. D. Roosevelt. Oggi, nelle case contadine dell’Etiopia, si vedono ritratti di Obama. Secondo voi, glieli ha portati qualche agente della Cia?
* David W. Ellwood, Una sfida per la modernità – Europa e America nel lungo Novecento, Roma, Carocci, 2012, pp. 403, euro 29, 00.
Da riforma.it
Sostieni la redazione di Notizie Cristiane con una donazione, clicca qui