Il fondatore dell’Esercito della Salvezza, un generale senza battaglie

Si fa un gran parlare di William Booth, fondatore dell’Esercito della Salvezza, come se fosse una figura epica, un novello San Paolo delle baracche e dei sottoproletari. Un uomo che, nella Londra sporca e disgraziata del XIX secolo, si sarebbe eretto come un baluardo di salvezza spirituale e sociale.
Ma, prima di incensare troppo questo generale di ventura, sarebbe il caso di guardare un po’ più da vicino la sua opera e la sua figura, senza cadere nel sentimentalismo o nella retorica caritatevole che tanto piace alle folle.
Booth non era un santo e, a dirla tutta, nemmeno un vero stratega della beneficenza. Era piuttosto un uomo abile nell’arte di prendere il disagio sociale e farne uno strumento per costruire un’organizzazione che ha più di militare che di spirituale.
L’Esercito della Salvezza, con le sue uniformi e le sue bande musicali, sembra più una strana parodia della gerarchia militare che una vera risposta alle profonde ingiustizie sociali del tempo. Il paternalismo e le critiche protestanti Di fronte alla povertà estrema di Londra, Booth non inventò nulla di nuovo.
Le sue ricette erano semplici: carità, evangelizzazione e soprattutto la creazione di un’enorme struttura organizzativa che si eresse su quella sofferenza.
Ora, attenzione, non stiamo dicendo che Booth non avesse buone intenzioni. Certo, voleva aiutare i poveri. Ma il suo sistema, più che liberare dalla povertà, si basava su una sorta di paternalismo sociale che lasciava intatte le cause strutturali della miseria.
Anche teologi protestanti non mancarono di esprimere perplessità. Il teologo scozzese John Stuart Holden, pur riconoscendo l’energia del movimento, lo definì “una soluzione di superficie ai mali profondi della società.” E ancora Frederick Denison Maurice, anglicano e critico sociale, bollò l’approccio di Booth come “un palliativo moralista”, che risolveva ben poco a livello di giustizia sociale.
George Bernard Shaw, mai tenero con i moralisti di ogni specie, scrisse sarcasticamente: “L’Esercito della Salvezza funziona bene come teatro per la buona società, ma non cambierà mai le condizioni reali dei poveri.” Booth, con la sua “armata”, non scardinò il sistema, non combatté per i diritti dei lavoratori o per un vero cambiamento sociale.
No, il suo obiettivo era riportare l’ordine, evitare che i diseredati diventassero una minaccia per l’equilibrio sociale. Dietrich Bonhoeffer, teologo luterano, criticò duramente questo tipo di cristianesimo “di facciata”, affermando: “La fede che non prende sul serio la giustizia è una fede priva di croce”.
Booth predicava la temperanza e la sobrietà, il che è senz’altro encomiabile, ma il vero problema non era l’alcolismo. Il problema era che il sistema economico dell’epoca riduceva intere famiglie a condizioni di vita disumane. Su questo, però, il nostro generale non aveva molto da dire. La rigida struttura militare: carità o controllo? Oltre alla critica sociale, c’è il nodo della rigida struttura dell’organizzazione. Dietro l’apparente purezza e compassione si celava una macchina organizzativa fatta di disciplina, controllo, e gerarchia, che rifletteva più una caserma che una chiesa.
James Denney, teologo scozzese, criticava questo aspetto, affermando che “la trasformazione del Vangelo in una questione di ordini e obbedienze militari ne soffoca lo spirito”.
L’Esercito della Salvezza funzionava come una macchina ben oliata, dove ogni “soldato” aveva un compito preciso e dove l’obbedienza era il primo comandamento. Che differenza rispetto ai veri movimenti di liberazione, che mettono l’accento sull’autonomia degli individui e la lotta per i diritti!
Anche il reverendo anglicano Charles Gore, vescovo e teologo, non esitò a criticare l’Esercito della Salvezza, definendolo “una gloriosa illusione,” una struttura che dava ai poveri l’illusione di essere aiutati, ma senza mai toccare davvero le cause della loro disperazione. Un’eredità dubbia In sintesi, Booth non era un innovatore, non era un rivoluzionario. Era, al massimo, un uomo pragmatico che, al posto di combattere le ingiustizie sociali alla radice, si accontentava di lenire i sintomi con soluzioni temporanee. La sua “salvezza” non cambiava il sistema, lo manteneva in equilibrio.
Il generale dell’Esercito della Salvezza sarà anche stato un bravo uomo, ma la storia, che ha sempre fame di eroi, dovrebbe fare attenzione prima di conferirgli troppi onori.
Notizie Cristiane
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