Una nuova classe politica… Quando arriva?

L’Italia, miei cari lettori, ha la classe politica che merita. Non c’è ironia in questa affermazione, ma una constatazione amara. Se il marcio alligna nei palazzi del potere, è perché lo abbiamo coltivato noi, con il nostro silenzio complice e la nostra indignazione a orologeria. «Ogni popolo ha il governo che si merita», diceva Joseph de Maistre, e noi ci meritiamo il meglio che il nostro sistema corrotto possa offrire.
Viviamo in un paese dove la corruzione non è un’anomalia, ma una consuetudine accettata. Giolitti ci aveva già avvisati: «Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». Oggi questa frase è più viva che mai, come un mantra ripetuto nei corridoi della politica italiana, dove la fedeltà al partito conta più della competenza, e il clientelismo è l’unica moneta che vale.
Eppure, questa non è solo una condanna politica, è una condanna morale. «Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene» (Isaia 5:20). La Bibbia ci avverte contro il ribaltamento dei valori, e in Italia, quel ribaltamento è diventato regola.
L’inganno è elevato a virtù, la trasparenza è vista come un fastidio, e l’onestà, quasi un difetto. Qui, il politico non è chiamato a servire il bene comune, ma se stesso e i suoi amici. «Non c’è giusto, neppure uno» (Romani 3:10), e sembra che Paolo abbia scritto pensando proprio alla nostra classe dirigente.
Se vogliamo cercare le radici di questa decadenza, basta guardare al popolo che li elegge. Come ci ricordava Indro Montanelli, «gli italiani preferiscono essere governati da un furbo piuttosto che da un onesto». Ed è questo che abbiamo fatto: abbiamo scelto la furbizia, l’inganno, il compromesso. Abbiamo accettato un sistema che premia la mediocrità e punisce l’eccellenza.
Pier Paolo Pasolini denunciava: «Io so. Io so i nomi dei responsabili, ma non ho le prove. Non ho neppure indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che viene scritto». Questa conoscenza, tuttavia, si infrange contro un muro di silenzio, perché l’indignazione è momentanea, mentre l’indifferenza è eterna. La classe politica italiana prospera in un clima di omertà e cinismo, dove ogni scandalo è accolto con un’alzata di spalle, e la riforma, con un sorriso beffardo.
Eppure, non possiamo accettare tutto questo senza ricordare il prezzo morale che stiamo pagando. «Il giusto cammina nella sua integrità; beati i suoi figli dopo di lui» (Proverbi 20:7). Ma quale integrità possono insegnare questi uomini ai propri figli, se la loro carriera è basata su menzogne e inganni? Viviamo in un tempo in cui «ognuno fa ciò che è giusto ai propri occhi» (Giudici 17:6), e in questa anarchia morale, non c’è spazio per l’etica, per il bene comune, per una vera giustizia.
Non si tratta solo di un fallimento politico, ma di un tradimento del mandato divino del governare con giustizia. «Il re stabilisce il paese con la giustizia, ma chi riceve regali lo rovina» (Proverbi 29:4). Quanti di questi nostri leader possono dire di non aver mai preso un “regalo”? Quanti possono vantare una carriera limpida? La corruzione è il tarlo che rode ogni istituzione, dal più piccolo comune fino ai palazzi del potere centrale.
Ci viene chiesto di non giudicare (Matteo 7:1), ma è nostro dovere richiamare alla responsabilità chi ci governa. Niccolò Machiavelli ci insegna che «bisogna essere volpe per riconoscere le trappole e leone per spaventare i lupi», ma in Italia il lupo non viene spaventato: viene nutrito, coccolato, incoraggiato. Il risultato è una classe dirigente che non serve il paese, ma lo sfrutta.
E allora, quale speranza ci resta? Forse dobbiamo tornare all’essenza della politica come servizio. Gesù ci insegna: «Chi vuole essere il primo tra voi, sia il servitore di tutti» (Marco 10:44). Ma chi tra i nostri leader si sacrifica veramente per gli altri? Chi rinuncia ai propri privilegi per il bene comune? Il loro servizio non è altro che un gioco di potere, un’accumulazione di vantaggi personali.
In fondo, il problema non è solo la classe politica: siamo tutti complici.
Come Ennio Flaiano diceva, «la situazione politica in Italia è grave ma non seria». Non seria perché, in fondo, non vogliamo veramente cambiare. Ci piace lamentarci, ma quando arriva il momento di agire, ci voltiamo dall’altra parte.
È tempo di risvegliarsi da questa comoda apatia e rivendicare una politica che sia degna di essere chiamata tale.
Se non lo facciamo, resteremo prigionieri di questo sistema corrotto, e avremo sempre i leader che ci meritiamo.Davide Romano

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