KUALA LUMPUR (Malesia) – La Corte di Appello di Kuala Lumpur, in Malaysia, ha riconosciuto valido il diritto del Governo a ricorrere contro l’utilizzo, anche da parte dei cristiani, del termine Allah, per indicare Dio. L’arcivescovo di Kuala Lumpur, Murphy Nicholas Xavier Pakiam, aveva esortato nei giorni scorsi la comunità cattolica a pregare affinché la Corte d’Appello si pronunciasse con un giusto verdetto in merito alla disputa legale sull’utilizzo del termine. Si tratta di una controversia che vede coinvolte da lungo tempo le comunità cristiana e musulmana, con quest’ultima sostenuta appunto dal Governo. Nel 2009, con una prima sentenza di un tribunale, la comunità cristiana aveva vinto la battaglia legale ottenendo il diritto a utilizzare il termine, ma poi la presentazione del ricorso da parte del Governo ha causato l’ulteriore prosecuzione della vicenda.
Con la decisione dei giudici, arrivata giovedì scorso, è stata anche fissata al 10 settembre la data nella quale le due parti dovranno tornare a confrontarsi in un processo di secondo grado.
“Allah” è in particolare la parola con cui Dio è tuttora indicato nella Bibbia in lingua malay, fin dalle prime edizioni, come testimonia la Bibbia «Alkitab» (1612), edita prima della formazione della Malaysia (1963). Secondo il Governo, l’uso del termine da parte dei non musulmani rischierebbe «di creare confusione e danneggiare l’ordine pubblico». Nei giorni scorsi il ministro degli Interni, Datuk Seri Ahmad Zahid Hamidi, ha ribadito che la parola Allah è esclusiva dei musulmani e i non musulmani devono rispettare «questo diritto assoluto».
Il presidente della Corte di Appello ha spiegato che «la questione è ancora aperta e deve essere risolta», aggiungendo che sarebbe stato illegittimo negare al Governo l’appello per un giudizio di secondo grado. Tuttavia, i cristiani ricordano che la sentenza del 2009 sulla controversia in atto ha dato loro ragione indicando il termine Allah come «non esclusivo dell’islam».
Diverse organizzazioni musulmane si sono attivate per contrastare l’utilizzo del termine da parte dei cristiani: tra queste, in particolare, vi è il «Perkasa», una lobby che conta nel Paese oltre 400 mila aderenti e che ha inscenato anche una manifestazione di protesta di fronte alla Corte di Appello. In un comunicato
dell’arcidiocesi di Kuala Lumpur si auspica il prevalere «della pace e del buon senso» per un positivo esito della vicenda.
L’uso del termine Allah da parte dei cristiani è divenuto oggetto di attacchi che hanno riguardato non soltanto la Bibbia, ma anche, per esempio, i nuovi strumenti di comunicazione, come Facebook. Nello Stato malaysiano di Selangor una organizzazione cristiana, la National Evangelical Christian Fellowship of
Malaysia (Necf), è stata oggetto di denuncia, riferisce l’agenzia Fides, per aver postato un messaggio su Facebook invitando i cristiani a «pregare per avere la benedizione di Allah». La denuncia è stata presentata dalla associazione nazionalista Jalur Tiga (Jati), che accusa i cristiani di tentare di convertire i malesi tramite una campagna sul social network. Un gruppo di avvocati musulmani legati alla Jati ha accusato la Necf — che raccoglie tutte le
comunità evangeliche presenti in Malaysia — di commettere «sacrilegio criminale contro l’islam». Come riferito a Fides, la comunità evangelica ha precisato che la sua campagna di preghiera «è stata pensata e rivolta solo ai fedeli cristiani». In particolare si rivolge a quel 60 per cento della popolazione cristiana malaysiana (sui complessivi 2,8 milioni di credenti) che pratica il culto in lingua “Bahasha Malaysia”, la lingua locale. Sono fedeli residenti soprattutto nelle province di Sabah e Sarawak, nel Borneo malaysiano. Nella loro lingua non esiste altro termine per indicare Dio se non Allah. Nello Stato di Selengor il divieto di usare la parola Allah è stato stabilito anche dal sultano Sharafuddin Idris Shah, con una esplicita fatwa, affermando che «è una parola sacra, esclusiva dei musulmani». In questo Stato, i cittadini musulmani sono il 57,9 per cento, i buddisti il 24,4, gli induisti l’11,6, i cristiani il 3,8, con uno 0,3 per cento di altri piccoli gruppi religiosi. Le comunità protestanti riunite nel Council of Churches of Malaysia (Ccm) hanno obiettato che una fatwa non può applicarsi ai non-musulmani e ribadiscono che, basandosi sulla sentenza del 2009, tuttora valida, continueranno a usare la loro Bibbia in cui è presente il termine Allah, esercitando la libertà di espressione sancita dalla Costituzione.
Nel 2011 la disputa portò anche al sequestro da parte del Governo di una carico di Bibbie destinate al Paese. Le autorità decisero di apporre i sigilli del ministero degli Interni su 5.100 copie della Bibbia in lingua malay. Esse rappresentavano una parte del totale di due carichi di circa 35.000 testi sacri fatti spedire dall’Indonesia per conto della Società Biblica della Malaysia e bloccati nei porti di Klang e Kughing. Il sigillo ufficiale, in particolare, riportava la dicitura «Avvertenza: questo libro è solo per l’uso dei cristiani».
I tentativi di rendere sempre più stringenti le tradizioni musulmane si manifestano anche attraverso la proposta, avanzata da alcuni gruppi e partiti nazionalisti, di introdurre le ordinanze hudud. Si tratta di punizioni imposte dalla legge islamica, come il taglio della mano o la lapidazione per le donne. Secondo tali ordinanze, la legge coranica va imposta anche ai non musulmani. La proposta ha sollevato le reazioni negative di tutte le minoranze religiose non islamiche, per le quali è incostituzionale.
da: L’Osservatore Romano
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