“Discorso di commiato a un paese che non ha saputo comprendermi: l’ultimo atto prima della liberazione.”

Mi ritrovo qui, ai tuoi piedi, con la penna stretta tra le dita e un foglio di carta immacolato a fare da specchio ai miei occhi umidi, nell’amaro tentativo di mettere nero su bianco l’impeto di rabbia che sento ardere nelle vene ogni volta che rievoco il tempo smarrito con te, mia (tutt’altro che) cara Cori, che tanto dolore hai arrecato a quest’anima e tanto le hai portato via. Si dice che il perdono sia il primo grande passo verso la guarigione. Ma, in pari tempo, anche scegliere di confrontarsi con la cruda verità lo è; così come può rivelarsi di gran lunga più sovversivo riconoscere le proprie ferite, poiché – esulando dalla retorica newageriana del “pensa bene e andrà tutto bene” – si inizia a lasciar spazio a un ben più valido: “non pensare a ciò che ti ha ferito, ma non dimenticare mai cosa ti ha insegnato”.

Ordunque, è in netta contrapposizione a quanto conclamato da tali agglomerati di positività tossica, settari e millantatori di varia natura – e nella ferma volontà di riappropriarmi della mia vita – che ho deciso di scriverti questa lettera d’addio senza edulcorare la mia esperienza né ancor più, rinnegare quelle ferite che, neanche l’immagine della collina, quel tuo celeberrimo “cucchiaio a rovescio”, riuscirà mai a lenire.

Ebbene, come suggerisce il buon Vecchioni in uno dei suoi brani più significativi: “Ora ascoltami! Ascoltami! E non fiatare!”.

Come una madre snaturata, mi hai accolta nel tuo grembo imprecando. Mi hai visto nascere, crescere e mai, assolutamente mai gioire. Mi hai ascoltato maledire il cielo, divorata dalla sete di libertà. Nondimeno, impietosa, hai continuato a maltrattarmi. Hai smantellato le mie speranze, mentre piangevo sassi; con il sale hai leccato le mie ferite, di veleno hai irrorato la mia essenza. Mi hai presa a pugni, poi a calci, mentre agonizzante, provavo a elucubrare nuovi piani d’azione per rimontare e riunire i miei frammenti d’anima. Nel vacuo tentativo di vivere la mia vita, tu mi intimavi a sopravvivere in uno stato imperituro di morte interiore. Hai fatto del dolore la mia zona confort, un tenero guscio dorato sopra il quale hai adagiato le tue pesanti viscere, relegandomi all’ombra dell’impassibilità. Hai risposto ai miei fiori con degli escrementi, hai ripagato la mia purezza con l’ingratitudine. Mi hai insultata, minacciata, disumanizzata senza alcuna reticenza. Come un genio del male hai deturpato la mia identità, imbottendomi di un costante senso di inadeguatezza. Hai nutrito il mio ego di false aspettative, malvagia hai disatteso i miei desideri. Con malizia hai profanato il mio nome, condannandomi a vivere nel terrore, in uno stato di profonda e totale abnegazione. Sul divano della mia prigionia, ti ho sorpresa a scrutare il mio tormento; dal trono delle tue franchigie mi hai visto contare i secondi, i minuti e le ore, bramando giustizia in quell’oceano di possibilità negate nel quale non ero ancora capace di nuotare. Hai seminato vani sogni sulla mia terra arida, sottopenendomi ad una gestazione forzata di imperiture delusioni. Mi hai messa alla gogna, poi al rogo. Hai tarpato le miei ali ogni qualvolta fossi sul punto di spiccare il volo. Hai lasciato che l’inverno mi assiderasse e che l’estate alimentasse il gelo che avevo dentro. Mi hai seviziata anche quando mi trovavo sul letto, agonizzante: con le tue dita di ragno hai tessuto il mio capezzale. Fingendoti alleata, hai creato una schermatura intorno al mio corpo morente, alienandomi dalla bellezza che era fuori da te: è a causa tua che non conosco il mondo, è per te che ogni cosa, là fuori, sembra ancora una minaccia. Ad ogni tentato compromesso, mi hai giudicato con diffidenza; per ogni segreto ingenuamente sussurrato al tuo orecchio, hai trovato il modo di affermare la tua presunta superiorità. Hai profuso astio e menzogne nel mio sacro tempio, mi hai lasciata alla mercé dei tuoi sicari. Hai svenduto il mio simulacro finanche mentre mi trovavo nel braccio della morte. Infine, nel fiore dei miei anni, hai cosparso di cenere il mio capo, la stessa cenere da cui oggi, sorprendentemente, sto rinascendo.

Ti odio. Ti odio anche se non è colpa tua. Ti odio perché sono umana, perché non sono Dio. Ti odio e ti odierò senza riserve per non aver saputo riconoscere tutto ciò che avevo da offrirti e, in egual modo, odierò coloro che ti abitano e che ti hanno reso la bestia che sei diventata.

Tornerò un giorno.

Tornerò davanti a quella scuola in cui tanto appresi e altrettanto venni ripudiata, sperimentando, per la prima volta nella vita, l’effluvio paralizzante del rifiuto.

Tornerò a salutare il tabaccaio che, anni fa, pensò bene di equipararmi ad una toilette davanti a tutti, sostenendo altresì che dopo otto lunghissime ore di lavoro nei campi, il mio presunto ’tanfo’ fosse così forte che avrei dovuto evitare di varcare la soglia del suo reame per acquistare solo un pacchetto di Chesterfield.

Tornerò a visitare la tomba dell’anziana donna che, anni fa, cercò di battermi con un bastone solo perché avevo osato dissentire dalla sua ideologia fascista.

Tornerò a sbandierare la mia busta paga dinanzi al buon vecchio sindaco di sani principi, il quale, durante uno dei nostri consueti e poco edificanti colloqui, mi suggerì di riconsiderare il mio outfit, poiché a suo avviso, se avessi continuato a vestirmi di nero, nessuno mi avrebbe mai offerto un lavoro.

Tornerò a vedere come se la passa la banda di reietti che, nell’estate del 2012, si divertì a scagliar sassi contro la nostra finestra, mancando di poco mia madre e accusandoci, al contempo, di praticare stregoneria in una sorta di ghettizzazione che rasentava i limiti della follia.

Tornerò a regalare un paio di slip rosa shocking al Pretucchio, nonché Vicario di Dio che, quando non avevo soldi né per mangiare e ancor meno per comprare biancheria intima, pensò bene di regalarmi dei vestiti improponibili, specificando che, se fossi stata davvero povera, mi sarei accontentata delle mutande da uomo con le quali aveva scelto di omaggiarmi caritatevolmente.

Tornerò a sorseggiare un caffè schiumato nello stesso bar in cui mi fu negato, solo per aver denunciato pubblicamente il terrorismo psicologico al quale dovetti resistere dagli albori del mio calvario legale.

Tornerò a strizzare l’occhiolino a quelle timorate di Dio che, strategicamente collocate dirimpetto alla Santa Chiesa, sembrano temere ogni cosa, fuorché il pregiudizio: pare ieri quando, armate di Rosario, mi insultavano additandomi come troia.

Tornerò e oserò sfilare nella tua piazza, in quel tuo ventre che per me è stato gogna; dove il branco di inetti dal movimento del collo armonicamente sincronizzato, si apprestava consuetamente a farmi la radiografia, svelando silenziosamente i propri giudizi, le sue tacite sentenze.

Tornerò ad offrire un’esigua elemosina nel cestino di coloro in cui il mio sangue scorre nelle vene: quei parenti che, come denti, tanto dissacrarono la mia famiglia, disconoscendoci perché non all’altezza del loro portafoglio.

Tornerò ad insonorizzare le celle inquiete del quartiere che, per troppo tempo, mi ha condannato a notti insonni – tra botti, minacce vicendevoli, urla e rumori di dubbia natura – per il benestare dei nuovi prigionieri, totalmente ignari di ciò che li aspetta.

Tornerò a cantare nelle orecchie di coloro che mi hanno esortata a tacere, a ballare dinanzi agli occhi di chi mi ha costretto all’immobilità, a vivere per ripicca di chi mi ha imposto la morte, minacciandomi amaramente se non avessi ottemperato agli ordini.

Tornerò nel centro storico, tuo cuore pulsante, in cui tutto si narra e tutto fa notizia: anche le gesta di una povera malcapitata che si china a novanta gradi per allacciarsi le scarpe, totalmente ignara del fatto che il giorno seguente finirà sulla bocca di tutti con l’accusa di aver fatto solo Dio sa cosa.

Tornerò a sedere su quella loquace panchina dei Bianchi Giardini: trono indefesso di sentenze e ineffabile dispensatrice di condanne a discapito dei derelitti, degli esclusi e dei fuorviati.

Tornerò in quei luoghi di aggregazione sociale in cui il vecchio birbante, sempre meno consapevole del fluire del tempo, aspettava solo il momento di cogliermi di soppiatto con il suo ingrato appellativo di “Monella!”, assegnatomi per tutta una serie di cause e ragioni pressoché sconosciute.

Tornerò in quella fermata del pullman, in cui a lungo ho atteso di vedere i miei sogni realizzarsi e dove per molto tempo mi sono sentita vulnerabile; specialmente il giorno in cui un ragazzo del posto, accortosi della mia presenza e divorato dalla convinzione che portassi sfortuna, ripeté in maniera ossessivo-compulsiva il gesto del segno di croce, ignaro che, presto, la sua famiglia avrebbe sperimentato un dolore ben più grande di quello che io, con le mie presunte fattucchierie, avrei potuto infliggergli.

Tornerò a passeggiare lungo quel vicolo che un giorno mi fu ostruito da un uomo, il quale – dopo aver appurato la quantità indefinita di foto pubblicate illecitamente sui siti pornografici e supponendo fossi una prostituta – mi chiese in modo insolente il prezzo dei miei presunti servizi.

Tornerò a distribuire crocchette per quei “mici da strada” a due zampe – che, miagolando al mio passaggio, ostentavano impunemente il loro appetito sessuale, a danno della mia persona; e ai “maiali” de “La Croce” che, alla vista del mio mandolino, grugnivano incessantemente, declinando il mio corpo a mera carne da macello.

Tornerò a sventolare la mia assoluzione giudiziaria in faccia a quel tuo figlio scriba, il quale, con mera diffidenza, affrontò pubblicamente la mia vicenda, equiparando la mia presunta vendetta a un piatto pornografico, servito rigorosamente freddo.

Tornerò davanti a quel ristorante dove, a soli diciassette anni, sono stata vittima di una tentata violenza sessuale, un reato che la legge italiana si è limitata a condannare con una multa pari alla somma di 180€.

Tornerò in questo luogo freddo e ostile come il tuo cuore, e in cui ho dovuto pagare a caro prezzo il mio tentativo di liberare una bambina dalle grinfie di una madre violenta; un debito condonato a suon di schiaffi, illazioni continue e minacce reiterate nel tempo.

Tornerò a bordo di un’invidiabile limousine per rivendicare la nostra macchina che, tempo fa, qualcuno del vicinato ebbe la brillante idea di manomettere, mettendo a repentaglio la vita di mia sorella.

Tornerò e lascerò alla mia gonna – un tempo ragione di scandalo, ma oggi simbolo di conquistata libertà – il lusso di assecondare il vento, e mi siederò scomposta in risposta all’indignazione di chi mi ha imposto un decoro a me scomodo e opprimente.

Tornerò a rimuginare tra queste fredde mura, che sono state testimoni dei miei anni bruciati. Guardando quella scritta sbiadita accanto al portone dell’edificio – che per me è stato casa – e con cui i tuoi pupilli hanno invocato la mia rovina, ricorderò il tempo in cui costoro percuotevano il mio volto di botte. Allora sorriderò, brindando alla mia imminente libertà conquistata.

Ma tornerò anche per omaggiare quei boschi che hanno accompagnato i miei passi stanchi, e che non hanno colpa dei tuoi errori. Rievocando le mie lunghe passeggiate in quegli antri sconfinati, non ancora contaminati dai pregiudizi, assaporerò l’ebbrezza di un mondo dove tutto è possibile, solo senza di te.
Contemplerò quel tempio che un tempo fu “di Ercole”, ma che successivamente è stato anche testimone delle mie telefonate d’amore, della voce mozzata dal pianto, di un’adolescenza mai davvero conquistata, di frammenti di quella felicità che, qui, non sono mai stata in grado di provare e, infine, di quegli impedimenti che hanno reso la mia prolungata permanenza così difficile.

Tornerò a guardarti, Cori, e ti guarderò negli occhi con la stessa forza di chi non ha mai ceduto di fronte alle ingiustizie e ha vinto!
Solo allora avrò il coraggio di dirti: “Diamine, tu mi stai stretta! Mi sei sempre stata stretta!”. Proprio come quando, pur indossando la taglia 46, mi ostinavo a entrare in una 42. E mi dispiace non aver compreso prima che l’universo contenuto nella mia mente non avrebbe potuto adattarsi ad un contenitore piccolo come il tuo.

Eppure me lo avevano detto: continuare a vivere in un luogo in cui non mi riconoscevo – né tantomeno mi sarei mai riconosciuta – sarebbe stato invalidante per il mio percorso di vita. Mi avevano avvertito che ero troppo diversa, troppo ribelle, intelligente, forte o comunque sempre un po’ ‘troppo’ qualcosa rispetto a te. E se da un lato queste parole mi compiacevano, dall’altro alimentavano in me il bisogno di sembrare ‘meno’ per tenermi, ancora un po’, ancorata al tuo grembo materno. Lì dove, se solo fosse trascorso un po’ di tempo in più, sarei riuscita a farmi amare come non hai mai fatto.

Ebbene, oggi, finalmente ho trovato la forza di dirti addio; Cori, agglomerato di odio, rancore, terrore, di te ne ho saturi l’animo e il cervello. Tu, che ti sei sempre vergognata di me, devi sapere che, adesso, sono io a provare vergogna per te. Sei e sarai sempre il mio più grande rimorso, la mia più grande condanna, la peggiore delle sventure. Abbandonare te, che per anni hai utilizzato i tuoi prosciutti e oli di rinomata qualità come pretesto per continuare a perpetrare le tue condotte criminose e come giustificazione ai tuoi errori – è stata la scelta più ragionevole, e coraggiosa al tempo stesso, che abbia mai fatto in trentadue anni di vita, ammesso che si possa chiamare così. Anni durante i quali non mi hai mai permesso di diventare la donna che desideravo essere.

Adesso ti lascio, benché concedendoti una degna sepoltura. Suppongo di averti dedicato già abbastanza del mio tempo utile. Tuttavia, ti auguro dal profondo di liberarti da quella cattiveria che ti ha resa così ostile verso questa figlia ingiustamente disamata. Con (o senza) il tuo permesso, riprendo il mio lasciapassare verso nuovi orizzonti e, insieme ad esso, un fetta consistente della mia vita. Una vita senz’altro migliore di quella che avevi in serbo per me. Mi dispiace che tu non abbia compreso quanto grande fosse ciò che avevo da darti.

Ora vado, non voglio perdermi neanche un momento della mia rinascita.

Mai stata tua.

Ilaria


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